venerdì 2 dicembre 2011

Altri testi per Palpitante Noir





Ecco alcuni dei testi che sono arrivati in redazione ma non sono saliti sul palco del Vapore la sera del 24 Novembre con tema PALPITANTE NOIR.
I video postati  sono le riprese del coro 'Insolite Note' nell'esibizione del 24 novembre.
Anticipiamo il tema letterario-musicale-performativo della prossima Jam che si terrà a gennaio: 
INCONTRI
Cominciate a lavorarci sopra e inviate i materiali a letteralmenteaperta@gmail.com 


Le 'Insolite Note'
Sweet Dreams


Cristiano Prakash Dorigo - Nero


Lo so che sei curiosa, che vorresti chiedermelo ma non ne hai il coraggio; certo, sei educata, sei istruita, sai stare al mondo, sai quello che si deve dire e quello che no. Ma io mi ti concedo, ti esonero dalla fatica di esporti, dall’approfittare di me per soddisfare una delle tue tante curiosità, di cui io sento il rumore, l’eco, il procedere a passo di marcia.
Il mio nero è come il buio assoluto, è come essere in una stanza senza finestre, senza porte, senza luce: non c’è altro che quel nero profondissimo, senza confine.
Ti chiedo di provare a diventare me. Ecco: ora immagina che in quella stanza, in quel buio, ad un certo punto non sei più solo. Accanto a te c’è una persona, una donna. Se ti va di giocare con me fino in fondo, chiudi gli occhi, ascoltami, seguimi: ecco sei con me in quella stanza totalmente buia, di una tinta di nero che così non l’avevi mai nemmeno immaginata. Non vedi niente, nemmeno le tue mani anche fossero ad un centimetro appena dagli occhi.
A volte arriva come un lampo, è una voce, un dolore, una distrazione, ma passa subito. 
All’improvviso sai che c’è qualcuno con te. Lo sai perché l’aria è diversa, c’è ora un odore nuovo, che cerchi da subito di codificare, che respiri facendolo scorrere tra le narici, che arriva alla mente, che corre giù fino al diaframma. E poi ascolti, senti il suo respiro, ne segui il ritmo, provi a sincronizzarti con esso, interiorizzi i suoi segreti. E ancora, immagina le mani che cercano il suo corpo: inizi dall’alto, coi polpastrelli, dai capelli e piano scendi verso il viso, collo, spalle, seno, pancia, la fessura che piano s’inumidisce, le cosce,
ginocchia, piedi; e da lì risali da dietro, dal basso verso l’alto stavolta. Senti i pori della sua pelle farsi evidenza a contatto con le tue mani, senti il sudore, il calore, le vibrazioni dell’eccitazione. E poi con la lingua e la bocca rifai il percorso perché vuoi conoscere il suo sapore. Labbra e lingua trasmettono il suo gusto. Rotei, infili, sfiori, lasci scie di saliva.
Ora sai tutto di lei. Sai il suo profumo, il suo respiro, il suo corpo, il suo sapore.
E poi tocca a lei, ripetere i tuoi gesti in modo speculare.
Ti annusa, ti ascolta, ti tasta, ti assaggia.
Alla fine sapete tutto quello che c’è da sapere, tranne l’aspetto formale, la fotografia,
perché il nero impedisce qualsiasi immagine, ma tanto non serve, non più: l’intimità annulla la forma. I vostri corpi si bastano, la mente lavora con gli altri sensi, le sono sufficienti. La vista è un senso sopravvalutato, di cui però, si può fare senza, solo se acuisci gli altri.
E se tutto fosse così, se poteste uscire da quella stanza, se foste in un bosco, davanti al mare, in collina, in stazione, in autobus, tutto risponderebbe allo stesso meccanismo di conoscenza neurologica e sensoriale. Se il mondo fosse nero, sarebbe comunque il mondo.
Il mio nero è così, si accende senza colori, si adegua ad un modo altro di esistere, fino a tararlo alle sue necessità. E tornano ancora quei lampi, quelle voci, la bava della rabbia ti colpisce, ti penetra e improvvisamente scompare. Tienila a bada: ancora per poco. 
Questo è il mio nero, il mio buio felice, la mia scala di valori non visiva, la mia consuetudine esistenziale, il mio vincolo e la mia risorsa, il mio limite e la mia occasione.
Ti ho descritto cosa si può provare uscendo un momento dalle abitudini sensoriali. 
E adesso ti dirò il resto, quello che non potevo dire prima.
È stato semplice dopo che eri venuta, dopo che ti avevo saziata, ti avevo resa felice, condurti al di là. Stringere un poco, sentire lo spessore della giugulare, il sangue che scorreva, stringere ancora un pò fino alla fine del respiro, della circolazione, della coscienza. Sei passata dagli spasmi dell’orgasmo alle convulsioni, alla scomparsa definitiva della luce, alla pace, in un unicum spazio-temporale. Ho infilato le dita nelle tue orbite, ho estratto le due palle mollicce, me le sono passate sulla pelle, le ho inghiottite, e poi basta.
Ho soltanto voluto regalarti un’esperienza, una morte felice, dopo il culmine del piacere.
Così non subirai la violenza della vita, la sua decadenza, la sua progressiva e inarrestabile fine. Ho solo ubbidito alle scosse violente procuratemi da quelle voci che mi ordinavano il da farsi. Ora conosci anche tu la profondità, la consistenza del mio nero.
Addio.




Poesie di Donatella Nardin 


Entròpion ( o dell'introflessione oculare ) pubblicata nell'Antologia 2011 PallidaMente, Felici Editore.


da sotto le palpebre scure un fiore 
carnale tracima e si posa deforme 
su noi in corolle di tragico nulla


è la paura che ottunde


e genera mondi e creature mostruose: 
le madri, con rose rosse di sangue 
accese negli occhi, hanno figliato 


dai senza volto un indicibile nero
che ci avviluppa e vanisce,
lo spirito vizzo di verità


rende reale, nell'introflessione oculare,
la più menzognera visione, esce 
improvviso dal petto il cuore impazzito


che confligge e comprime ogni memoria 
di vita lucente e d'umanità.


Sinossi di un'ordalia


Stanno accovacciate nel gelo
o allineate a sé stesse, in un'unica orma gigante,
le figure ossessive del buio e della notte


quasi senza parole, ripetono il cosmo,
le ere, la fossile disarmonia di piccole
cose brumose dove si perde e consuma 


la tua lingua ansimante che trema 
enunciando la sua silenziosa atonia; 
con mani viola di ghiaccio e di tenebra nera


ti portano a picco nell'ordalia di una rissa 
chiassosa, disseminata nel plasma,
senza più cielo e respiro.


Le 'Insolite Note'
Because




Giorgio Bassanese - L’indiano 


Tutti i giorni, alle cinque della sera, passava a quell’incrocio. Fosse il sole
ancor alto di giugno o all’imbrunire di dicembre. Evitava la metropolitana,
anche se sarebbe stata comoda per lei. Scendeva sempre dall’altura di
Holmekollen in macchina, nella sua auto, dal suo ufficio di promotore
finanziario con una vetrata sull’Oslofiord. Le mancavano pochi mesi per
andare in pensione e lei era proprio stanca di quell’inutile lavoro. Certo la
paga era buona: poteva permettersi una Volvo XC60, l’ultimo modello che
cambiava ogni due anni.
In quel pomeriggio di giugno, insolitamente ventoso, l’aria le pareva
elettrica e nuvoloni bianchi spumeggianti si spostavano velocemente
nell’azzurro intenso del cielo.
Aveva appena passato lo Storting, per entrare in Karl Johan Gate,
lasciato il Grand Hotel sulla sinistra, stava avvicinandosi a quel semaforo,
dove, ogni sera, da due anni, c’era sempre lui a quell’incrocio che, con un
sorriso, le tendeva una rosa. Difficile dare un’età a quell’uomo minuto,
dalla pelle ambrata, nè troppo scura, nè troppo chiara, gli occhi di un
marrone deciso, ben marcato. Poteva essere sulla quarantina, o almeno
così le sembrava. Aveva pensato spesso a quell’uomo: poteva essere
bengalese, oppure di Bombay, di Calcutta o magari di Cylon, non avrebbe
saputo dire. Lei la pelle l’aveva bianca, come il ghiaccio del fiordo. Lui,
sicuramente, arrivava dal continente indiano.
Bioerg Adams detestava gli indiani. Si infiltravano nella sua Norvegia.
Erano dappertutto: nelle cucine dei ristoranti, negli alberghi, ai mercati…
alla Stazione Centrale, come portabagagli, trovavi sempre loro. Alla
mattina chi c’era ad infilarti il Dagbladet nella buca delle lettere? Sempre
uno di loro.  “Te li trovi persino al mercato del pesce – sbottava - a
vendere i reker, nelle nostre tipiche barche di legno, quelle stesse dove
mio papà e mio nonno e il nonno di mio nonno andavano a retare i grossi
gamberoni… ci stanno scippando le nostre radici!”
Bioerg quegl’indiani non li poteva proprio sopportare.
E ogni volta che passava davanti a quell’uomo, che per mestiere offriva
una rosa, per forza al semaforo doveva rallentare o fermarsi. E per un
istinto, quasi irrefrenabile, doveva bruciargli lo sguardo, penetrare i suoi
occhi ben disegnati, ma anche posarsi su quella bocca sempre sorridente.
Biorg doveva farsi violenza nel rifiuto sdegnoso, ritrarre lo sguardo e
non le veniva il suo gentile usuale e consueto “ tusen tak”, ma, con la mano
rigidamente protesa verso di lui: “No, no… baaaasta!!!”
Mancava poco alle cinque della sera e lei ancora non vedeva quel
semaforo. “Chissà dove sarà  l’indiano - pensava Biorg – son due settimane
che non lo vedo più. Forse sarà tornato al suo Paese… nooo, magari ha
cambiato zona.”  Quel semaforo le era rimasto ben saldo nella memoria
anche perché era uno dei primi ad aver la segnalazione acustica per i
pedoni che non potevano vedere. Talvolta lo attraversava a piedi con
suo padre quando lo accompagnava al cimitero, la mamma non c’era
più da due anni. Suo padre da qualche mese ci andava ogni giorno al
cimitero. Comperava dei fiori al negozio di Moellergata e poi, dopo averli
sostituiti a quelli del giorno precedente, se ne ritornava a casa. Un rituale
ossessivo. Tutte le mattine. Stamane l’aveva chiamata in ufficio all’ora di
pranzo. Non era andato a trovare la mamma, quella mattina era rimasto a
casa con l’idraulico per una riparazione in bagno.
Come sempre, in auto a quell’ora, Biorg ascoltava il programma di
canzoni del primo canale. Oggi era la voce di Paco Ibanez che la colpì
particolarmente: "Me lo decía mi abuelito, me lo decía mi papá, me
lo dijeron muchas veces y lo olvidaba muchas más. Trabaja niño no
te pienses que sin dinero vivirás.….” “Certo, - pensava Biorg - anche
il mio papà le stesse parole: bisogna lavorare, farsi una posizione… e
quell’indiano, lui vive alla giornata e ha sempre quel sorriso” e lei sempre
insoddisfatta, inquieta… e sì che aveva un sacco di soldi messi da parte…
Si addensano proprio lungo la Karl Johan Gate nuvole improvvise grosse,
cupe, pesanti.
Una pioggia battente, fitta, che quasi non ci si vede..
“E’ lui, è tornato!!!”: intravvede,  se pur a distanza, attraverso il vetro
liquido di pioggia, quell’uomo con i fiori in mano. I tergicristalli alla
massima velocità all’unisono con i battiti del suo cuore e una sensazione,
inconsueta, come un disagio, l’assale.
Un tuono sordo, alle cinque della sera, in quella ventosa giornata di
giugno. Un fulmine inesorabile, senza scampo, si abbatte su quell’uomo
al semaforo con i fiori in mano. Lui crolla a terra, orfano di vita. Biorg è
come impietrita.


Poi avverte un bisogno insopportabile di raggiungerlo.
Accelera, inchioda, scende, lo raggiunge.
Si apre un varco tra la folla che si era accalcata tutta intorno a quel
corpo inanimato.
Lo guarda.
Lancia un urlo lancinante.
E’ Karl Adams. Suo padre.






Chiara Patronella - Le indecise facce del dado


Erano due notti che non mi toglievo di dosso l’impermeabile,
puzzavo di morto, ma non m’importava.
Guardavo fuori la stramaledetta pioggia che non smetteva di cadere,
contavo le facce dei dadi e ne vedevo sette.
Forse era colpa dello Scotch, il dado aveva sette merdose facce.
Fumavo una sigaretta dopo l’altra e facevo cerchi in aria.
Poi a un certo punto ho fumato la sua, c’era ancora il suo rossetto rosso sangue.
C’erano ancora le sue scarpe rosso sangue.
C’era ancora il suo vestito rosso sangue. Ma lei dov’era?
Guardavo fuori, tutto buio, c’erano solo i lampioni in fila e lei, lei, la strada.
Quella puttana, grigia, cupa, s’inghiottiva persino la pioggia.
Ho aperto la finestra, di scatto e ho urlato “dove me l’hai portata?”,
sono barcollato e ho sbattuto la testa, mi sono sporcato l’impermeabile,
lo stesso che non mi toglievo da due notti e che mi dava l’odore di morto.
Merda, mi ero macchiato l’impermeabile del colore del suo rossetto, delle sue scarpe e del suo vestito.
Mi sono trascinato fino alla poltrona e ho acceso un’altra sigaretta,
ho fatto cerchi in aria e mi sono versato un altro bicchiere.
Stavolta le facce del dado erano otto.
Le ho contate mille volte, il dado aveva otto merdose facce.
Non potevo più stare lì, stavo diventando matto, ho aperto la porta e sono scivolato giù per le scale,
l’aria fredda e la pioggia mi avrebbero fatto ragionare meglio.
Ho messo le mani in tasca e sono andato nel locale in fondo alla strada,
non c’era quasi nessuno, amavo quel posto.
Luci rosse e blu, pavimento a scacchiera. Era sempre lurido e se per caso non ti eri fatto la barba ti faceva
sentire a tuo agio.
Io la barba non me la facevo da settimane. E avevo da due notti lo stesso impermeabile che mi dava l’odore
di morto e in più era sporco del colore del suo rossetto, delle sue scarpe e del suo vestito.
“Billy, dammi qualcosa di forte”, ho detto e poi sono andato verso il tavolo verde in fondo alla stanza.
Volevo pensare.
Si è avvicinata una donna, le ho detto che non era aria.
Ha insistito, le ho detto che non era aria.
Ha insistito ancora, le ho detto che non era aria e mi sono spostato.
Volevo concentrarmi sul sassofonista che suonava in solitudine le stesse e insistenti note,
avevo bisogno di musica forte per pensare.
Dove sei andata?
Avevo bisogno di pensare, di pensare.
Ho bevuto un altro bicchiere e col fumo ho fatto un paio di cerchi in aria.
Poi mi sono alzato, ho abbottonato l’impermeabile che non mi toglievo da due notti e che sapeva di morto
e si era colorato di sangue, rossetto, scarpe e vestito di lei, ho pagato e sono uscito fuori.
Ho messo le mani in tasca, la pioggia ed il freddo mi avrebbero aiutato a pensare.
Prima di uscire dal locale, però, avevo preso la mia stilografica e, a stento, avevo scritto qualcosa sul tavolo
verde.


Facevo l'inferno,
come quando i sentimenti scorrevano.
Rotoli di cartaigienica usati per il pianto,
ma a quale fine?
Suonatori di fagotto si aggiravano in bretelle,
ma senza strumento.
Ed io finivo rotoli di tutto per il pianto.
A strapparmi gli occhi vedevo l'inferno,
c'andavo dentro e bruciavo.
Non poteva essere questo l'amore,
ma lamenti nel sonno mi riportavano al giorno.
Brucia la testa: suonate il vostro fagotto!
Non poteva, ma pareva amore.
Forte, bruciante amore.








Le 'Insolite Note'
Il 24 novembre 2011 al Vapore per LetteralmenteAperta


Annusca - VISITA AL MUSEO.


Non so in che città mi trovassi, non lo ricordo. La memoria
visiva non mi aiuta e non “vedo” alcun particolare che mi
faccia riconoscere il luogo in cui mi aggiravo, ma di sicuro
non era la mia città. Era un pomeriggio d’autunno. L’aria,
greve di umidità, riusciva ad insinuarsi attraverso i vestiti
sebbene non fossero leggeri: li sentivo pesanti, opprimenti,
ma non mi proteggevano. Ero sola. Non so per quale motivo
fossi lì, in quel luogo sconosciuto e anonimo, chissà, forse
dovevo incontrarmi con qualcuno, non saprei dire chi,
probabilmente però l’appuntamento era saltato e insieme a
me in quel momento non c’era nessuno.
Non rifuggo la solitudine, anzi spesso la cerco, la corteggio
e poi me ne nutro e la assaporo come un cibo dal gusto
delicato, per intenditori, e dal retrogusto un po’ amarognolo,
ma quel giorno il fatto di trovarmi sola mi provocava fastidio
e scontentezza, perché era la conseguenza di una scelta
non mia, che mi era stata imposta a tradimento. Ero, a
ragione, di malumore ed irritata, soprattutto verso me stessa
per essermi lasciata trascinare, non so con quale pretesto
o con quale allettamento, fuori dalla mia casa, l’unico luogo
in cui mi sento al sicuro. Ma è evidente che doveva andare
così: era una di quelle giornate che cominciano male e
proseguono peggio.
Nessun lampo di arancione e porpora di foglie morenti a
illuminare il grigio compatto e monotono della giornata che
stava finendo. Non colori e nemmeno suoni. Intorno a me
solo silenzio. Ma il silenzio che di solito amo, nel quale mi
raccolgo e mi crogiolo e che è pieno dei miei pensieri, lì, in
quel momento era vuoto: mi sentivo fuori dalla realtà, in uno
spazio ed in un luogo senza spazio e senza tempo, rarefatto
e falso come un acquario.
Ad un certo punto mi trovo all’interno di un museo.
Mi pare che la giornata non fosse così fredda da farmi
cercare riparo in un qualsiasi luogo chiuso, caldo,
confortevole e rassicurante, né così calda da farmi
desiderare la frescura, seppure artificiale, dell’aria
condizionata.
Non mi piacciono i musei, li detesto: collezionano ed
esibiscono cose morte che appartengono al passato. Alla
magniloquenza enfatica, tronfia ma statica e immutabile di
ciò che è già avvenuto e che è per l’eternità cristallizzato
in una forma definita e conclusa, preferisco la semplicità
anche banale del quotidiano, che è in divenire, che può
ancora essere via via modificato, migliorato … Perciò che
cosa mi avesse spinto ad entrare non so spiegarlo, forse la
noia, il senso di fastidio per il vuoto silenzioso dell’esterno.
Di sicuro la mia era stata un’azione non premeditata, fatta
così, di getto, senza stare tanto a pensarci, uno di quei gesti
innocenti in sé, ma che portano conseguenze irreparabili di
cui ci rendiamo conto solo dopo, quando è troppo tardi per
rimediare. Per le strade o vicoli, non so, in cui ero stata fino
a poco tempo prima, per una strana coincidenza non avevo
visto nessuno, ma non c’è nessuno nemmeno qui, oltre a
me nessun visitatore o una guida e adesso che ci penso
non avevo nemmeno potuto pagare il biglietto, e a chi?,
non c’era nessuno nemmeno in biglietteria.
Il fastidio che provavo all’esterno e al quale ho tentato di
sfuggire entrando qui, non mi ha affatto abbandonato, ma
si è trasformato in un senso di inquietudine, la sensazione
vaga e imprecisa, ma non per questo meno reale, che
sta per accadere qualcosa di inaspettato e spiacevole.
Questo malessere forse è provocato dal fatto che sono
l'unica persona ad aggirarsi per i corridoi e le sale che
si susseguono una dopo l'altra, a cannocchiale, corridoi
e sale completamente vuoti, poco illuminati, i soffitti
bassi. Non quadri, né statue e nessun altro di quegli
oggetti che aborrisco e che l’uomo conserva nell’illusione
di fermare il tempo e possedere la vita mentre in realtà
queste cianfrusaglie non sono che il monumento alla morte.
Cammino sempre più in fretta, nella speranza di incontrare
qualcuno o semplicemente di liberarmi da quella ansia che
mi si è appiccicata addosso … o più semplicemente ancora,
per guadagnare al più presto l’uscita. Ho la spiacevole
impressione di essere entrata per sbaglio in uno di quegli
infernali labirinti dei lunapark dove c’è un solo percorso
obbligato da seguire: non so perché, ma ho l’assoluta
certezza che non posso tornare indietro e sono costretta,
mio malgrado, a procedere solo in un senso.
Finalmente entro in una sala circolare, non so se
ottagonale, comunque non rettangolare o quadrata. Dal
soffitto pende un filo elettrico che, noto, è stato attorcigliato
su se stesso, forse per accorciarlo, a cui è attaccata una
lampadina nuda che spande una luce fioca, polverosa.
Al centro della stanza, proprio sotto la lampadina, c'è un
lettino, uno di quelli dove ti fanno sdraiare i medici per
visitarti e sopra c'è la mummia di un uomo, stesa su un
fianco. Quella cosa inanimata esposta alla nostra indiscreta
curiosità di avvoltoi, una volta era un uomo. E’ vero, sono
passati migliaia di anni, ma c’è stato un tempo ed un luogo
in cui quell’uomo ha sofferto ed ha gioito, ha riso ed ha
pianto proprio come noi, per le stesse cose che procurano
ad ognuno di noi gioia e dolore.
E il suo corpo, ora insensibile e disseccato come un vecchio
legno stagionato, mi ricorda in modo irriverente, anche
se la mia è un’irriverenza involontaria … sì, mi ricorda un
pollo allo spiedo troppo cotto, completamente disidratato
… eppure quel corpo è appartenuto ad un bambino e poi
ad un giovane e poi ancora ad un uomo, ed ha patito il
caldo, il freddo, la fame, la fatica, la malattia. Nelle sue vene
scorreva il sangue, pulsava la vita.
Non me ne accorgo subito perché è parzialmente coperta
da un telo di lino, ma quando mi avvicino e mi chino a
guardarla, noto che la mummia ha una gamba sola. Provo
vergogna per quel mio indugiare a guardare, pena, per
quell’uomo che migliaia di anni fa è vissuto ed è morto,
ribrezzo per quella cosa inanimata che è diventato.
Poi continuo la visita per corridoi e sale vuote, ma dopo un
po' sento alle mie spalle TOC...TOC...TOC: qualcuno mi segue.
Non è il passo dove si alternano due piedi, sono i colpi di un
piede solo che batte sul pavimento. Non c'è nessuno oltre a
me nel museo e capisco che è la mummia che mi sta
inseguendo. Può apparire strano, eppure è così: ciò che mi
spaventa di più non è che la mummia mi insegua, è il fatto
che ha una gamba sola, c’è qualcosa di osceno in
quell’unica gamba, ne provo orrore. TOC...TOC...TOC: il
rimbombo del passo si avvicina sempre più. Cerco di
gridare, ma la voce mi muore strozzata in gola e comunque
a che servirebbe? lì non c’è nessuno che possa venire a
salvarmi. Vorrei correre, scappare, nascondermi, ma le
gambe sono diventate molli, di gomma, non mi obbediscono
e nemmeno mi reggono. C’è un macigno che mi schiaccia il
petto, che mi impedisce di respirare. Il sangue mi si è
ghiacciato nelle vene o forse no, scorre come l’acqua
vorticosa di un torrente in piena, il cuore batte impazzito,
morirò, di paura, sì, morirò. Sono terrorizzata, posso
tentare solo una cosa per salvarmi, faccio un ultimo sforzo,
ritrovo la voce, grido … e mi sveglio.