venerdì 2 dicembre 2011

Altri testi per Palpitante Noir





Ecco alcuni dei testi che sono arrivati in redazione ma non sono saliti sul palco del Vapore la sera del 24 Novembre con tema PALPITANTE NOIR.
I video postati  sono le riprese del coro 'Insolite Note' nell'esibizione del 24 novembre.
Anticipiamo il tema letterario-musicale-performativo della prossima Jam che si terrà a gennaio: 
INCONTRI
Cominciate a lavorarci sopra e inviate i materiali a letteralmenteaperta@gmail.com 


Le 'Insolite Note'
Sweet Dreams


Cristiano Prakash Dorigo - Nero


Lo so che sei curiosa, che vorresti chiedermelo ma non ne hai il coraggio; certo, sei educata, sei istruita, sai stare al mondo, sai quello che si deve dire e quello che no. Ma io mi ti concedo, ti esonero dalla fatica di esporti, dall’approfittare di me per soddisfare una delle tue tante curiosità, di cui io sento il rumore, l’eco, il procedere a passo di marcia.
Il mio nero è come il buio assoluto, è come essere in una stanza senza finestre, senza porte, senza luce: non c’è altro che quel nero profondissimo, senza confine.
Ti chiedo di provare a diventare me. Ecco: ora immagina che in quella stanza, in quel buio, ad un certo punto non sei più solo. Accanto a te c’è una persona, una donna. Se ti va di giocare con me fino in fondo, chiudi gli occhi, ascoltami, seguimi: ecco sei con me in quella stanza totalmente buia, di una tinta di nero che così non l’avevi mai nemmeno immaginata. Non vedi niente, nemmeno le tue mani anche fossero ad un centimetro appena dagli occhi.
A volte arriva come un lampo, è una voce, un dolore, una distrazione, ma passa subito. 
All’improvviso sai che c’è qualcuno con te. Lo sai perché l’aria è diversa, c’è ora un odore nuovo, che cerchi da subito di codificare, che respiri facendolo scorrere tra le narici, che arriva alla mente, che corre giù fino al diaframma. E poi ascolti, senti il suo respiro, ne segui il ritmo, provi a sincronizzarti con esso, interiorizzi i suoi segreti. E ancora, immagina le mani che cercano il suo corpo: inizi dall’alto, coi polpastrelli, dai capelli e piano scendi verso il viso, collo, spalle, seno, pancia, la fessura che piano s’inumidisce, le cosce,
ginocchia, piedi; e da lì risali da dietro, dal basso verso l’alto stavolta. Senti i pori della sua pelle farsi evidenza a contatto con le tue mani, senti il sudore, il calore, le vibrazioni dell’eccitazione. E poi con la lingua e la bocca rifai il percorso perché vuoi conoscere il suo sapore. Labbra e lingua trasmettono il suo gusto. Rotei, infili, sfiori, lasci scie di saliva.
Ora sai tutto di lei. Sai il suo profumo, il suo respiro, il suo corpo, il suo sapore.
E poi tocca a lei, ripetere i tuoi gesti in modo speculare.
Ti annusa, ti ascolta, ti tasta, ti assaggia.
Alla fine sapete tutto quello che c’è da sapere, tranne l’aspetto formale, la fotografia,
perché il nero impedisce qualsiasi immagine, ma tanto non serve, non più: l’intimità annulla la forma. I vostri corpi si bastano, la mente lavora con gli altri sensi, le sono sufficienti. La vista è un senso sopravvalutato, di cui però, si può fare senza, solo se acuisci gli altri.
E se tutto fosse così, se poteste uscire da quella stanza, se foste in un bosco, davanti al mare, in collina, in stazione, in autobus, tutto risponderebbe allo stesso meccanismo di conoscenza neurologica e sensoriale. Se il mondo fosse nero, sarebbe comunque il mondo.
Il mio nero è così, si accende senza colori, si adegua ad un modo altro di esistere, fino a tararlo alle sue necessità. E tornano ancora quei lampi, quelle voci, la bava della rabbia ti colpisce, ti penetra e improvvisamente scompare. Tienila a bada: ancora per poco. 
Questo è il mio nero, il mio buio felice, la mia scala di valori non visiva, la mia consuetudine esistenziale, il mio vincolo e la mia risorsa, il mio limite e la mia occasione.
Ti ho descritto cosa si può provare uscendo un momento dalle abitudini sensoriali. 
E adesso ti dirò il resto, quello che non potevo dire prima.
È stato semplice dopo che eri venuta, dopo che ti avevo saziata, ti avevo resa felice, condurti al di là. Stringere un poco, sentire lo spessore della giugulare, il sangue che scorreva, stringere ancora un pò fino alla fine del respiro, della circolazione, della coscienza. Sei passata dagli spasmi dell’orgasmo alle convulsioni, alla scomparsa definitiva della luce, alla pace, in un unicum spazio-temporale. Ho infilato le dita nelle tue orbite, ho estratto le due palle mollicce, me le sono passate sulla pelle, le ho inghiottite, e poi basta.
Ho soltanto voluto regalarti un’esperienza, una morte felice, dopo il culmine del piacere.
Così non subirai la violenza della vita, la sua decadenza, la sua progressiva e inarrestabile fine. Ho solo ubbidito alle scosse violente procuratemi da quelle voci che mi ordinavano il da farsi. Ora conosci anche tu la profondità, la consistenza del mio nero.
Addio.




Poesie di Donatella Nardin 


Entròpion ( o dell'introflessione oculare ) pubblicata nell'Antologia 2011 PallidaMente, Felici Editore.


da sotto le palpebre scure un fiore 
carnale tracima e si posa deforme 
su noi in corolle di tragico nulla


è la paura che ottunde


e genera mondi e creature mostruose: 
le madri, con rose rosse di sangue 
accese negli occhi, hanno figliato 


dai senza volto un indicibile nero
che ci avviluppa e vanisce,
lo spirito vizzo di verità


rende reale, nell'introflessione oculare,
la più menzognera visione, esce 
improvviso dal petto il cuore impazzito


che confligge e comprime ogni memoria 
di vita lucente e d'umanità.


Sinossi di un'ordalia


Stanno accovacciate nel gelo
o allineate a sé stesse, in un'unica orma gigante,
le figure ossessive del buio e della notte


quasi senza parole, ripetono il cosmo,
le ere, la fossile disarmonia di piccole
cose brumose dove si perde e consuma 


la tua lingua ansimante che trema 
enunciando la sua silenziosa atonia; 
con mani viola di ghiaccio e di tenebra nera


ti portano a picco nell'ordalia di una rissa 
chiassosa, disseminata nel plasma,
senza più cielo e respiro.


Le 'Insolite Note'
Because




Giorgio Bassanese - L’indiano 


Tutti i giorni, alle cinque della sera, passava a quell’incrocio. Fosse il sole
ancor alto di giugno o all’imbrunire di dicembre. Evitava la metropolitana,
anche se sarebbe stata comoda per lei. Scendeva sempre dall’altura di
Holmekollen in macchina, nella sua auto, dal suo ufficio di promotore
finanziario con una vetrata sull’Oslofiord. Le mancavano pochi mesi per
andare in pensione e lei era proprio stanca di quell’inutile lavoro. Certo la
paga era buona: poteva permettersi una Volvo XC60, l’ultimo modello che
cambiava ogni due anni.
In quel pomeriggio di giugno, insolitamente ventoso, l’aria le pareva
elettrica e nuvoloni bianchi spumeggianti si spostavano velocemente
nell’azzurro intenso del cielo.
Aveva appena passato lo Storting, per entrare in Karl Johan Gate,
lasciato il Grand Hotel sulla sinistra, stava avvicinandosi a quel semaforo,
dove, ogni sera, da due anni, c’era sempre lui a quell’incrocio che, con un
sorriso, le tendeva una rosa. Difficile dare un’età a quell’uomo minuto,
dalla pelle ambrata, nè troppo scura, nè troppo chiara, gli occhi di un
marrone deciso, ben marcato. Poteva essere sulla quarantina, o almeno
così le sembrava. Aveva pensato spesso a quell’uomo: poteva essere
bengalese, oppure di Bombay, di Calcutta o magari di Cylon, non avrebbe
saputo dire. Lei la pelle l’aveva bianca, come il ghiaccio del fiordo. Lui,
sicuramente, arrivava dal continente indiano.
Bioerg Adams detestava gli indiani. Si infiltravano nella sua Norvegia.
Erano dappertutto: nelle cucine dei ristoranti, negli alberghi, ai mercati…
alla Stazione Centrale, come portabagagli, trovavi sempre loro. Alla
mattina chi c’era ad infilarti il Dagbladet nella buca delle lettere? Sempre
uno di loro.  “Te li trovi persino al mercato del pesce – sbottava - a
vendere i reker, nelle nostre tipiche barche di legno, quelle stesse dove
mio papà e mio nonno e il nonno di mio nonno andavano a retare i grossi
gamberoni… ci stanno scippando le nostre radici!”
Bioerg quegl’indiani non li poteva proprio sopportare.
E ogni volta che passava davanti a quell’uomo, che per mestiere offriva
una rosa, per forza al semaforo doveva rallentare o fermarsi. E per un
istinto, quasi irrefrenabile, doveva bruciargli lo sguardo, penetrare i suoi
occhi ben disegnati, ma anche posarsi su quella bocca sempre sorridente.
Biorg doveva farsi violenza nel rifiuto sdegnoso, ritrarre lo sguardo e
non le veniva il suo gentile usuale e consueto “ tusen tak”, ma, con la mano
rigidamente protesa verso di lui: “No, no… baaaasta!!!”
Mancava poco alle cinque della sera e lei ancora non vedeva quel
semaforo. “Chissà dove sarà  l’indiano - pensava Biorg – son due settimane
che non lo vedo più. Forse sarà tornato al suo Paese… nooo, magari ha
cambiato zona.”  Quel semaforo le era rimasto ben saldo nella memoria
anche perché era uno dei primi ad aver la segnalazione acustica per i
pedoni che non potevano vedere. Talvolta lo attraversava a piedi con
suo padre quando lo accompagnava al cimitero, la mamma non c’era
più da due anni. Suo padre da qualche mese ci andava ogni giorno al
cimitero. Comperava dei fiori al negozio di Moellergata e poi, dopo averli
sostituiti a quelli del giorno precedente, se ne ritornava a casa. Un rituale
ossessivo. Tutte le mattine. Stamane l’aveva chiamata in ufficio all’ora di
pranzo. Non era andato a trovare la mamma, quella mattina era rimasto a
casa con l’idraulico per una riparazione in bagno.
Come sempre, in auto a quell’ora, Biorg ascoltava il programma di
canzoni del primo canale. Oggi era la voce di Paco Ibanez che la colpì
particolarmente: "Me lo decía mi abuelito, me lo decía mi papá, me
lo dijeron muchas veces y lo olvidaba muchas más. Trabaja niño no
te pienses que sin dinero vivirás.….” “Certo, - pensava Biorg - anche
il mio papà le stesse parole: bisogna lavorare, farsi una posizione… e
quell’indiano, lui vive alla giornata e ha sempre quel sorriso” e lei sempre
insoddisfatta, inquieta… e sì che aveva un sacco di soldi messi da parte…
Si addensano proprio lungo la Karl Johan Gate nuvole improvvise grosse,
cupe, pesanti.
Una pioggia battente, fitta, che quasi non ci si vede..
“E’ lui, è tornato!!!”: intravvede,  se pur a distanza, attraverso il vetro
liquido di pioggia, quell’uomo con i fiori in mano. I tergicristalli alla
massima velocità all’unisono con i battiti del suo cuore e una sensazione,
inconsueta, come un disagio, l’assale.
Un tuono sordo, alle cinque della sera, in quella ventosa giornata di
giugno. Un fulmine inesorabile, senza scampo, si abbatte su quell’uomo
al semaforo con i fiori in mano. Lui crolla a terra, orfano di vita. Biorg è
come impietrita.


Poi avverte un bisogno insopportabile di raggiungerlo.
Accelera, inchioda, scende, lo raggiunge.
Si apre un varco tra la folla che si era accalcata tutta intorno a quel
corpo inanimato.
Lo guarda.
Lancia un urlo lancinante.
E’ Karl Adams. Suo padre.






Chiara Patronella - Le indecise facce del dado


Erano due notti che non mi toglievo di dosso l’impermeabile,
puzzavo di morto, ma non m’importava.
Guardavo fuori la stramaledetta pioggia che non smetteva di cadere,
contavo le facce dei dadi e ne vedevo sette.
Forse era colpa dello Scotch, il dado aveva sette merdose facce.
Fumavo una sigaretta dopo l’altra e facevo cerchi in aria.
Poi a un certo punto ho fumato la sua, c’era ancora il suo rossetto rosso sangue.
C’erano ancora le sue scarpe rosso sangue.
C’era ancora il suo vestito rosso sangue. Ma lei dov’era?
Guardavo fuori, tutto buio, c’erano solo i lampioni in fila e lei, lei, la strada.
Quella puttana, grigia, cupa, s’inghiottiva persino la pioggia.
Ho aperto la finestra, di scatto e ho urlato “dove me l’hai portata?”,
sono barcollato e ho sbattuto la testa, mi sono sporcato l’impermeabile,
lo stesso che non mi toglievo da due notti e che mi dava l’odore di morto.
Merda, mi ero macchiato l’impermeabile del colore del suo rossetto, delle sue scarpe e del suo vestito.
Mi sono trascinato fino alla poltrona e ho acceso un’altra sigaretta,
ho fatto cerchi in aria e mi sono versato un altro bicchiere.
Stavolta le facce del dado erano otto.
Le ho contate mille volte, il dado aveva otto merdose facce.
Non potevo più stare lì, stavo diventando matto, ho aperto la porta e sono scivolato giù per le scale,
l’aria fredda e la pioggia mi avrebbero fatto ragionare meglio.
Ho messo le mani in tasca e sono andato nel locale in fondo alla strada,
non c’era quasi nessuno, amavo quel posto.
Luci rosse e blu, pavimento a scacchiera. Era sempre lurido e se per caso non ti eri fatto la barba ti faceva
sentire a tuo agio.
Io la barba non me la facevo da settimane. E avevo da due notti lo stesso impermeabile che mi dava l’odore
di morto e in più era sporco del colore del suo rossetto, delle sue scarpe e del suo vestito.
“Billy, dammi qualcosa di forte”, ho detto e poi sono andato verso il tavolo verde in fondo alla stanza.
Volevo pensare.
Si è avvicinata una donna, le ho detto che non era aria.
Ha insistito, le ho detto che non era aria.
Ha insistito ancora, le ho detto che non era aria e mi sono spostato.
Volevo concentrarmi sul sassofonista che suonava in solitudine le stesse e insistenti note,
avevo bisogno di musica forte per pensare.
Dove sei andata?
Avevo bisogno di pensare, di pensare.
Ho bevuto un altro bicchiere e col fumo ho fatto un paio di cerchi in aria.
Poi mi sono alzato, ho abbottonato l’impermeabile che non mi toglievo da due notti e che sapeva di morto
e si era colorato di sangue, rossetto, scarpe e vestito di lei, ho pagato e sono uscito fuori.
Ho messo le mani in tasca, la pioggia ed il freddo mi avrebbero aiutato a pensare.
Prima di uscire dal locale, però, avevo preso la mia stilografica e, a stento, avevo scritto qualcosa sul tavolo
verde.


Facevo l'inferno,
come quando i sentimenti scorrevano.
Rotoli di cartaigienica usati per il pianto,
ma a quale fine?
Suonatori di fagotto si aggiravano in bretelle,
ma senza strumento.
Ed io finivo rotoli di tutto per il pianto.
A strapparmi gli occhi vedevo l'inferno,
c'andavo dentro e bruciavo.
Non poteva essere questo l'amore,
ma lamenti nel sonno mi riportavano al giorno.
Brucia la testa: suonate il vostro fagotto!
Non poteva, ma pareva amore.
Forte, bruciante amore.








Le 'Insolite Note'
Il 24 novembre 2011 al Vapore per LetteralmenteAperta


Annusca - VISITA AL MUSEO.


Non so in che città mi trovassi, non lo ricordo. La memoria
visiva non mi aiuta e non “vedo” alcun particolare che mi
faccia riconoscere il luogo in cui mi aggiravo, ma di sicuro
non era la mia città. Era un pomeriggio d’autunno. L’aria,
greve di umidità, riusciva ad insinuarsi attraverso i vestiti
sebbene non fossero leggeri: li sentivo pesanti, opprimenti,
ma non mi proteggevano. Ero sola. Non so per quale motivo
fossi lì, in quel luogo sconosciuto e anonimo, chissà, forse
dovevo incontrarmi con qualcuno, non saprei dire chi,
probabilmente però l’appuntamento era saltato e insieme a
me in quel momento non c’era nessuno.
Non rifuggo la solitudine, anzi spesso la cerco, la corteggio
e poi me ne nutro e la assaporo come un cibo dal gusto
delicato, per intenditori, e dal retrogusto un po’ amarognolo,
ma quel giorno il fatto di trovarmi sola mi provocava fastidio
e scontentezza, perché era la conseguenza di una scelta
non mia, che mi era stata imposta a tradimento. Ero, a
ragione, di malumore ed irritata, soprattutto verso me stessa
per essermi lasciata trascinare, non so con quale pretesto
o con quale allettamento, fuori dalla mia casa, l’unico luogo
in cui mi sento al sicuro. Ma è evidente che doveva andare
così: era una di quelle giornate che cominciano male e
proseguono peggio.
Nessun lampo di arancione e porpora di foglie morenti a
illuminare il grigio compatto e monotono della giornata che
stava finendo. Non colori e nemmeno suoni. Intorno a me
solo silenzio. Ma il silenzio che di solito amo, nel quale mi
raccolgo e mi crogiolo e che è pieno dei miei pensieri, lì, in
quel momento era vuoto: mi sentivo fuori dalla realtà, in uno
spazio ed in un luogo senza spazio e senza tempo, rarefatto
e falso come un acquario.
Ad un certo punto mi trovo all’interno di un museo.
Mi pare che la giornata non fosse così fredda da farmi
cercare riparo in un qualsiasi luogo chiuso, caldo,
confortevole e rassicurante, né così calda da farmi
desiderare la frescura, seppure artificiale, dell’aria
condizionata.
Non mi piacciono i musei, li detesto: collezionano ed
esibiscono cose morte che appartengono al passato. Alla
magniloquenza enfatica, tronfia ma statica e immutabile di
ciò che è già avvenuto e che è per l’eternità cristallizzato
in una forma definita e conclusa, preferisco la semplicità
anche banale del quotidiano, che è in divenire, che può
ancora essere via via modificato, migliorato … Perciò che
cosa mi avesse spinto ad entrare non so spiegarlo, forse la
noia, il senso di fastidio per il vuoto silenzioso dell’esterno.
Di sicuro la mia era stata un’azione non premeditata, fatta
così, di getto, senza stare tanto a pensarci, uno di quei gesti
innocenti in sé, ma che portano conseguenze irreparabili di
cui ci rendiamo conto solo dopo, quando è troppo tardi per
rimediare. Per le strade o vicoli, non so, in cui ero stata fino
a poco tempo prima, per una strana coincidenza non avevo
visto nessuno, ma non c’è nessuno nemmeno qui, oltre a
me nessun visitatore o una guida e adesso che ci penso
non avevo nemmeno potuto pagare il biglietto, e a chi?,
non c’era nessuno nemmeno in biglietteria.
Il fastidio che provavo all’esterno e al quale ho tentato di
sfuggire entrando qui, non mi ha affatto abbandonato, ma
si è trasformato in un senso di inquietudine, la sensazione
vaga e imprecisa, ma non per questo meno reale, che
sta per accadere qualcosa di inaspettato e spiacevole.
Questo malessere forse è provocato dal fatto che sono
l'unica persona ad aggirarsi per i corridoi e le sale che
si susseguono una dopo l'altra, a cannocchiale, corridoi
e sale completamente vuoti, poco illuminati, i soffitti
bassi. Non quadri, né statue e nessun altro di quegli
oggetti che aborrisco e che l’uomo conserva nell’illusione
di fermare il tempo e possedere la vita mentre in realtà
queste cianfrusaglie non sono che il monumento alla morte.
Cammino sempre più in fretta, nella speranza di incontrare
qualcuno o semplicemente di liberarmi da quella ansia che
mi si è appiccicata addosso … o più semplicemente ancora,
per guadagnare al più presto l’uscita. Ho la spiacevole
impressione di essere entrata per sbaglio in uno di quegli
infernali labirinti dei lunapark dove c’è un solo percorso
obbligato da seguire: non so perché, ma ho l’assoluta
certezza che non posso tornare indietro e sono costretta,
mio malgrado, a procedere solo in un senso.
Finalmente entro in una sala circolare, non so se
ottagonale, comunque non rettangolare o quadrata. Dal
soffitto pende un filo elettrico che, noto, è stato attorcigliato
su se stesso, forse per accorciarlo, a cui è attaccata una
lampadina nuda che spande una luce fioca, polverosa.
Al centro della stanza, proprio sotto la lampadina, c'è un
lettino, uno di quelli dove ti fanno sdraiare i medici per
visitarti e sopra c'è la mummia di un uomo, stesa su un
fianco. Quella cosa inanimata esposta alla nostra indiscreta
curiosità di avvoltoi, una volta era un uomo. E’ vero, sono
passati migliaia di anni, ma c’è stato un tempo ed un luogo
in cui quell’uomo ha sofferto ed ha gioito, ha riso ed ha
pianto proprio come noi, per le stesse cose che procurano
ad ognuno di noi gioia e dolore.
E il suo corpo, ora insensibile e disseccato come un vecchio
legno stagionato, mi ricorda in modo irriverente, anche
se la mia è un’irriverenza involontaria … sì, mi ricorda un
pollo allo spiedo troppo cotto, completamente disidratato
… eppure quel corpo è appartenuto ad un bambino e poi
ad un giovane e poi ancora ad un uomo, ed ha patito il
caldo, il freddo, la fame, la fatica, la malattia. Nelle sue vene
scorreva il sangue, pulsava la vita.
Non me ne accorgo subito perché è parzialmente coperta
da un telo di lino, ma quando mi avvicino e mi chino a
guardarla, noto che la mummia ha una gamba sola. Provo
vergogna per quel mio indugiare a guardare, pena, per
quell’uomo che migliaia di anni fa è vissuto ed è morto,
ribrezzo per quella cosa inanimata che è diventato.
Poi continuo la visita per corridoi e sale vuote, ma dopo un
po' sento alle mie spalle TOC...TOC...TOC: qualcuno mi segue.
Non è il passo dove si alternano due piedi, sono i colpi di un
piede solo che batte sul pavimento. Non c'è nessuno oltre a
me nel museo e capisco che è la mummia che mi sta
inseguendo. Può apparire strano, eppure è così: ciò che mi
spaventa di più non è che la mummia mi insegua, è il fatto
che ha una gamba sola, c’è qualcosa di osceno in
quell’unica gamba, ne provo orrore. TOC...TOC...TOC: il
rimbombo del passo si avvicina sempre più. Cerco di
gridare, ma la voce mi muore strozzata in gola e comunque
a che servirebbe? lì non c’è nessuno che possa venire a
salvarmi. Vorrei correre, scappare, nascondermi, ma le
gambe sono diventate molli, di gomma, non mi obbediscono
e nemmeno mi reggono. C’è un macigno che mi schiaccia il
petto, che mi impedisce di respirare. Il sangue mi si è
ghiacciato nelle vene o forse no, scorre come l’acqua
vorticosa di un torrente in piena, il cuore batte impazzito,
morirò, di paura, sì, morirò. Sono terrorizzata, posso
tentare solo una cosa per salvarmi, faccio un ultimo sforzo,
ritrovo la voce, grido … e mi sveglio.

sabato 26 novembre 2011

I testi del 24 novembre




Grazie a tutti quelli che c'erano, grazie a tutti quelli che hanno partecipato.
Nei prossimi giorni pubblicheremo una parte dei testi non letti.
Se avete materiale foto/video della serata inviatelo a letteralmenteaperta@gmail.com
Ecco i testi invece protagonisti di Palpitante Noir del 24 novembre:

La sera è incominciata con questo video: Kasabian  - switchblade smiles





Marcello Fausto Dalla Pietà
Per
Andare
Libero
Porterò
In
Tasca
Ali
Nate
Tra
Escrementi
Nascerà
Oltre
Il tempo la
Rosa

Unkle - The Runaway:

Serena Casagrande, estratto da “L'evento si terrà anche in caso di pioggia”, racconto pubblicato su Sugarpulp.it
Ora il grand’uomo si riappropria dell’unico ruolo che madre natura gli ha concesso: quello del coglione, appunto. Dallo zaino spuntano quattro lattine di birra da cinquecento ml del Lidl. Quatro Piere beve con l’ingordigia dello sprovveduto che non conosce affatto gli effetti dell’alcol e che non sa in che guaio si stia cacciando. Ma per mantenere fede alla sua indole, sciorina aneddoti improbabili a proposito di memorabili bevute. Lei tace e fissa il cielo nero. E aspetta. Meno del previsto, perché Quatro Piere è ancora più coglione di quel che immaginava. Dopo nemmeno un’ora (e tre lattine e mezza), la Bella Addormentata riposa beata. Ma non è a questa fiaba che Lara sta pensando. A lei viene in mente piuttosto il coretto dei Sette Nani della Disney, quando allegri se vanno in miniera con il piccone in spalla. “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”. Apre lo zaino ed estrae un piccone, non proprio da minatore (l’ha trovato nella casetta degli attrezzi da giardino), ma confacente al caso suo. “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”.
Non riesce a togliersi dalla testa questo ritornello mentre fracassa la testa di Quatro Piere a picconate. Nemmeno un urlo, solo un rantolo da bestiolina. “La classica fortuna dei dilettanti”, pensa. Senza saperlo, deve essere andata subito a botta sicura. Morto sul colpo, il povero coglione. In ogni caso, le casse degli autoscontri sparano a palla La funzione dei Subsonica e in cielo compaiono I primi fuochi d’artificio. Poteva anche prendersi la briga di gridare Quatro Piere: inutile fino alla fine. “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”. E’ l’unica melodia che le arriva al cervello e, lentamente, inizia a muovere le labbra, ad articolare suoni. E un sorriso liberatorio le si stampa in faccia, mentre con dell’erba toglie dalle sue Converse nere frammenti di scatola cranica e poltiglia di encefalo del fu Quatro Piere.
Non si preoccupa nemmeno di nascondere il corpo. La sua mente non l’ha previsto. Si limita a spingerlo in un fosso. Non si sente nemmeno il tonfo, le piante acquatiche attutiscono il rumore della caduta. Solo un rospo non gradisce. Getta il piccone, le scarpe e i vestiti sporchi di sangue in un sacco di nylon. Prende il cambio dallo zainetto e ci infila il sacchetto. Poi torna tranquillamente verso la sagra.
L’evento si terrà anche in caso di pioggia. Già! Però il tempo ha tenuto, meglio così. Passa di nuovo di fronte al cimitero. Tutto tace, “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”, canticchia a bassa voce. Esce ancora un fumo denso dalla cucina dello stand gastronomico: centinaia di persone si rimpinzano di costicine, porchetta e polenta. Alla faccia dei trentadue gradi Celsius che segna il termometro digitale della farmacia. Evita la zone con le giostre e la pesca di beneficenza, si avvia verso casa.
Domani ha la prima ora di scienze e non vuole assolutamente perderla. L’insegnante le ha promesso che le porterà la piromorfite.Spera che non la cerchino fino al termine della lezione.Perché, a Lara, questo minerale verde pistacchio piace da morire.

A lenta corsa  di Stefano Mattia Pribetti tratto da Venoir edizioni LT2
         A notte inoltrata le puttane iniziano il turno, e noi con loro. Siamo come le malattie del sangue, arriviamo in silenzio.
Ci chiamano operatori di siluro a lenta corsa, la scorta personale del tritolo, le sue braccia e le sue gambe. Siamo destinati ad accompagnare il siluro sotto le navi nemiche, lo cavalchiamo a tandem fino a quindici metri, dove l’unica luce è la fosforescenza dei quadranti al radiomir. Là sotto, bussola e profondimetro diventano i nostri occhi, e siamo gemelli siamesi attaccati per la testa. La testa del siluro si chiama “testa di servizio”, un servizio a domicilio. Contiene due quintali di tritolital e un congegno a tempo, dopo averla posizionata, il resto del siluro ci riporta a casa.
Non sbagliamo, noi del siluro a lenta corsa, è una corsa lenta perché la prepariamo per mesi. Anche per anni. È calcolata al centimetro, almeno la parte in cui arriviamo alla nave.
Per il ritorno improvvisiamo. Il ritorno è la parte per cui non ci addestrano.
Tre, due, uno, immersione.
Questo è il film peggiore del mio repertorio. Con l’acqua ad altezza occhiali avanziamo seguendo le voci di quelli che siamo pronti a far esplodere. Le spie luminose dei loro sigari, una canzone di bordo che, su un’altra nave, in un’altra lingua, ho già sentito. L’Ammiraglia Von Spee, nel suo asilo lagunare, ha oscurato tutte le stelle. C’è solo la piattaforma lanciamissili e le sagome dei cannoni contro un lembo di cielo nero. E poi sotto, l’acqua si chiude sopra le nostre teste e dissolve l’ultima luce rimasta.
Il profondimetro, ora segna meno tre metri. Buio verde cupo, temere ciò che non vediamo è il nostro mestiere, la paura del buio è il nostro radar.
Ora siamo a meno sette metri. C’è un’oscillazione anomala, non registrata dalla bolla della longitudine. Queste hanno tutta l’aria di essere vertigini.
Profondità meno dodici, avanti finché il verde cupo diventa nero pece: siamo entrati nell’ombra, nell’immane ombra dell’Ammiraglia Von Spee, ed è già tempo di risalire. Svuoto la cassa d’immersione, un “clang” che solo noi possiamo sentire.
Saliamo a meno undici metri. Lo scafo su di noi è enorme e si avvicina. Stiamo salendo ma sembra sia la nave a scendere finché non saremo seppelliti vivi sul fondo. Sensazione anomala, nausea anomala.
Meno dieci. Mettiamo un braccio sopra la testa. Pericolo di concrezioni marine sulla carena. Conchiglie, balani o denti di cane, pericolosi per noi che indossiamo solo gomma, stupida inutile gomma che basta una falla e diventa un vestito d’acqua gelida. Denti di cane, non pensare ai denti di cane. Sott’acqua, le immagini tendono a ingigantirsi. Aumento vertigini, urgenza risalita. Ipotizzata saturazione del filtro del respiratore, ipotizzata asfissia.
Meno nove. Gli operatori di siluro a lenta corsa sono silenziosi ed implacabili, e invece siamo pesci stupidi contro il ventre degli squali. Obbligo di salire con lentezza anche se urge emersione immediata, non mi intossicherò col mio stesso respiro e non vomiterò nella maschera.
Meno otto. La maschera è  un crostaceo non meglio identificato che artiglia alla nuca e insuffla gas velenoso nei polmoni.
Meno qualcosa. Non pensare ai denti di cane e a nessuna specie di crostaceo. Svuoto di colpo la  cassa d’immersione, lancetta del profondimetro che scorre troppo veloce. Mi strappo via il granchio dalla faccia, l’acqua sulla faccia è gelida, l’acqua nei polmoni è gelida.
Denti di cane in avvicinamento, denti di cane dentro la mia testa.

Anna Girardi – Nero e Colori tratto da Venoir edizioni Studio LT2
Il lunedì per Giovanni ha il colore del branzino, ed è della signora Luigia:
- Ciao Giovanni come va dammi due chili di sarde e la pesca tutto bene? e mezzo chilo di seppie sì, è un lavoro duro quello del mercato eh? lo so lo so anche il mio povero Mario l’ha fatto per un po’ quando era giovane e…Giovanni mai che ti veda in giro con una bella donna sempre solo sempre solo anche due triglie aggiungi va là…
Il martedì è rosa salmone, ed è di Giovanna: 23-24anni, perennemente in dieta, studentessa di Filosofia, forse Lettere:
- Le spigole a quanto sono? Sono fresche? Se non fosse così ossuta e occhialuta sarebbe anche carina, ma tanto, lei Giovanni non lo vede, ha Marco in testa lei, Marco e la sua chitarra e le vacanze con la Vespa su e giù per la Corsica. No, lei Giovanni proprio non lo vede. Non vede il colore dei suoi occhi, non vede le sue mani grosse eppure dolci che sfiorano, palpano e scelgono per lei le cose migliori.
Il mercoledì ha il colore sbiadito della moglie dell’architetto Frisoni che arriva dopo il consueto caffé lungo da Rosasalva:
- Buongiorno Giovanni, per oggi una dozzina di capesante; un polpo, ma non troppo grande; delle vongole, ma non troppo sabbiose; dei calamaretti, ma non troppo duri; metta tutto sul conto, grazie. Passerà più tardi Rashid, a prendere la borsa.
Elegantissima, ingioiellata anche solo per gironzolare annoiata fra i banchi del mercato, a scegliere con noncuranza il menu per un marito che è già tanto se torna una volta alla settimana da Milano, dai suoi uffici e da chissà cos’altro.
E Giovanni come sempre ascolta, silenzioso nel caos del mercato, tutti i giorni, in ogni stagione e con ogni tempo, mentre vende pesce nel suo dialetto dolce di laguna, con il Canal Grande a lambire di sale i suoi sogni interrotti di quando, bambino, voleva diventare pilota e far scorribande sulle onde del cielo. Giovanni sta lì, come in un quadro di Guttuso, incolore tra i colori, tra scaglie di speranza sciupata e carni polpose come dolore raggrumato. Sta lì, fino al venerdì.
Giorno di grande attesa, attesa di lei.
La sua Margherita. Il suo fiore.
Lui l’aspetta, aspetta lei che non sa di lui se non delle sue unghie sporche, dei suoi capelli biondo-scatola e dei suoi tatuaggi. Margherita va sempre vestita di nero e sa quello che vuole. Anche Giovanni vorrebbe saperlo. Margherita cerca la sua vita, se stessa. Giovanni non ci ha neppure provato. Ora tocca a lei, lì davanti a lui, tutta sua. Con quella sua voce piena di fumo e notti insonni. Non lo vede, non lo ascolta, non lo guarda neppure. Lui, invece.
- Buongiorno, secca, del pescespada, asciutta, una coda di rospo, assente, due mormi, fredda. Basta così. Quant’è? Ecco, grazie, arrivederci.
Si gira. Se ne va, veloce com’è arrivata e sorda, come sempre.
Tornerà venerdì. Come ogni i venerdì.
Tornerà?
Eh no, non tornerà mi spiace. Ma Lei dovrebbe saperlo, no? L’abbiamo trovata in una piccola spiaggia, lontano dal mercato, solo una rete la avvolgeva. Come un pece senza più via di scampo.
Sì. Così ho deciso.
Perché?
Perché ero stanco di stare lì, invisibile agli occhi di quelle donne che non sanno né guardare né ascoltare; in mezzo a quel pesce che mi marciva dentro, mentre mi sentivo affondare nell’acqua sempre più alta. Sì, ero stanco di tornare a casa a parlare col televisore, a passare la domenica aspettando il lunedì per vedere qualcuno, al mercato. Ero stanco di tutte quelle Luigia, Giovanna, Melissa. Ora basta Non ci sono più loro, non ci sono più io.
E infatti Luigia sta già dormendo il sonno dei Giusti, tra la fanghiglia di un fondale basso, non lontano da qui. Giovanna l’ha seguita un martedì, non era il suo giorno?
Sa, Melissa mi ha quasi ringraziato, l’ho visto dietro al terrore dei suoi occhi. E Margherita, la mia dolce Margherita, l’ho distesa sulla barca, quel venerdì, in una vecchia rete, e ho legato la
barca a una bricola in mezzo alla laguna, proprio dove andavo da bambino, con il nonno, e mi mettevo a guardare il cielo e gli aerei passare. Starò lì con lei, ho pensato mentre la seguivo. Finalmente le parlerò, le racconterò delle altre, e lei finalmente mi starà ad ascoltare. Non tornerai a casa, ho pensato.
No, non tornerà, Margherita. E non tornerà Lei. La condanna non sarà leggera, penso che lo sappia.
Non mi interessa, non tornerò. Non mi vedranno più.
Vedranno sa che non c’è al mercato.
Già, vedranno dice lei… vedranno che non mi vedranno…vedranno…vedranno…

Carlo Callegari, estratto dal romanzo “Che Dio ti aiuti, Bambola” di prossima pubblicazione con la casa editrice digitale LA CASE Production
Tony era veramente nano, ma il nano più cazzuto che avessi conosciuto in vita mia. Non che me ne avessero presentati chissà poi quanti di nani. Ma lui, ci avrei scommesso le palle, era sicuramente il più cazzuto di tutti. Viveva con le gemelle biologiche da sempre. Avevo sentito dire in giro che i tre si erano conosciuti ai tempi dell'asilo. Poi erano cresciuti, fatta eccezione per Tony, e avevano sempre mantenuto un grande affiatamento. Un'altra voce ricorrente era quella che le gemelle scopassero solo con lui e, anche in questo caso, non faticavo a credere che fosse la verità.
Tony era una nano in versione tirolese. Portava, sia in estate che in inverno, sempre lo stesso paio di pantaloni a coste in velluto verde, lunghi fino alle ginocchia. Anche le bretelle gialle lo seguivano ovunque, come pure la camicia bianca con ricami floreali al centro e sulla schiena. L'unico indizio del cambio stagione erano le calzature. Scarpe ortopediche con calzino bianco fino al ginocchio, per l'inverno. Infradito e piedi nudi per l'estate. A corredo di tutto una Smith and Wesson calibro quarantacinque con canna cromata e calcio in madreperla, perennemente infilata nella patta dei pantaloni. La canna della pistola era talmente lunga che Tony era costretto a camminare con una gamba rigida.
Per finire, ironia della sorte, il suo cognome. Il buon Dio aveva deciso di prenderlo per il culo fin dalla nascita. Tony il nano, all'anagrafe, risultava registrato come Antonio Piccolo...
Quindi, che lo chiamassi Tony il nano o che lo chiamassi Tony Piccolo, l'effetto era sempre il medesimo. Rischiavi un buco nello stomaco ad opera del suo cannone cromato.
Con un ronzio elettrico si aprì il portoncino d'ingresso e salii.
Fui accolto da Tony e dal suo cannone luccicante.
“Ciao Carlito.”
“Ciao Tony.”
“Hai controllato di non essere seguito?”
“Sì Tony.”
“Hai seguito le strade che ti avevo indicato nella lettera?”
“Sì Tony.”
“Hai spento il telefono?”
“Sì Tony.”
“Hai un vestito da cristiano, sotto a quel cappotto?”
“Sì Tony.”
“Allora vaffanculo ed entra!”
“Sì Tony.”
“E smettila di dire sì Tony, cazzo! Mi sembri uno stronzo di automa. Sì Tony, no Tony, sì Tony. Vaffanculo cazzo!
“Sì Tony” dissi sorridendo.
Lui si voltò e mise la sua piccola mano grassoccia, fra l’altro guarnita con un enorme anello d’oro a forma di testa di leone, sul calcio della pistola.
“La vedi la canna del mio ferro? Te la ficco dove il sole non arriva nemmeno a mezzogiorno e ti faccio la rettoscopia. Come rispondi?
“No, Tony.”
“Bravo ragazzo” disse sorridendo. “Adesso va meglio.”
Quel nano vestito da tirolese aveva la capacità di mettermi di buonumore. Infondo gli volevo bene. Mi invito ad accomodarmi in un divano all'ultima moda ma decisamente pacchiano.
Tony invece si sedette su di una piccola sedia in plastica rosa che sembrava essere uscita direttamente dalla casa della Barby.
“Non dire niente ragazzo” mi disse quando si accorse che lo osservavo divertito. “Si è rotta la mia vecchia sedia di paglia e così l'ho portata a sistemare. Questa è solo provvisoria. L'ho comperata in un negozio di giocattoli. Era in esposizione all'interno di una casetta in plastica per bambini. Sai, quelle da mettere in giardino affianco allo scivolo e l'altalena. Fra le altre cose volevano vendermi
pure quella.”
“L'altalena?” dissi ridendo.
“La casetta” fece lui guardandomi serio.
Alzai le mani in segno di resa.
“Di cosa volevi parlarmi?” chiese nuovamente.
“Trovavo giusto dirti che le gemelle mi hanno appena proposto uno strano rituale di purificazione.”
“E lo hai già finito?”
“No. Non l’ho mai cominciato. Per una forma di rispetto nei tuoi confronti ho preferito rinunciare. Ad ogni modo ho trovato giusto dirtelo.”
“Hai fatto bene ragazzo. Comunque quello era solo un rituale, niente di più. Non si lasciavano scopare per amore o altre balle varie. Lo volevano fare solamente per darti una mano. Credimi, dovresti sentirti onorato. Le persone che hanno potuto usufruirne, nell’arco di molti anni, si possono contare sulle dita di una mano. Io, ovviamente, sono una di quelle dita.”
“Grazie Tony. Dovessi stendere un’altra persona, promesso che ci farò un pensiero.”
“Bravo, perché non sai cosa ti sei appena perso. Quelle due donne sono fantastiche, hanno il fuoco dentro. Io devo essere arrivato al quinto, o forse sesto rito di purificazione, adesso non ricordo bene.”
“Con questo mi stai dicendo che tu…”
Il nano portò la sua grassoccia mano davanti al naso, quindi alzò il dito indice.
“Shhh. Mai fare troppe domande, ragazzo. Nel nostro settore si potrebbe finire diritti al campo santo, nella migliore delle ipotesi.”
“Forse volevi dire nella peggiore delle ipotesi.”
“No. Volevo proprio dire nella migliore. Nella peggiore finisci dentro ad un argine, senza nemmeno una bara ed un posto dove i tuoi cari possano piangerti. E’ una bella differenza, credimi. Oltretutto è pure una grande rottura di coglioni per chi deve scavare la fossa. Io lo so bene, perché qualche anno fa ho perso una notte intera a scavarne una dalle parti di Fiesso d’Artico.”
Sorrise nuovamente.
“L’unico stramaledetto cinese alto più di un metro e settanta me lo sono beccato io. Non sembra, ma venti centimetri fanno la differenza quando stai scavando una dannata fossa… Adesso però vai e vedi di non farti seguire da qualche stronzo. Noi ci aggiorniamo a dopo domani.”
Prima che potessi aggiungere altro il nano mi aveva già sbattuto la porta in faccia.

Depeche Mode - I feel you:



Francesco Pasquale, “A ruota”, racconto pubblicato su Sugarpulp.it
SP 10 Padana Superiore.
Notte.
Capannoni e officine.
130 all’ora di automobile.
«Cazzo cazzo cazzo! Maledetta puttana!»
Supermercati e outlet.
«Ma chi cazzo me l’ha messo in testa di fare?»
«Ma io…»
«Taci zoccola!»
Cartello blu Vicenza.
Cartello blu Verona.
«Credi che me piacere prenderlo da tutti?»
«Taci t’ho detto! Mica mi puoi mettere contro i tuoi protettori!»
«Io no soldi. Io pagare afitto. Io…»
«Chiudi quella bocca di merda!»
L’auto curva a 45°.
Stridore di gomme.
«Che situassion demmerda!»
Una seconda auto curva a 45°.
«Proiettili rimbalzano sulla portiera.»
«Pure ci sparano ora!»
«Loro no cattivi. Loro solo arabiati!»
«Arrabbiati?! Arrabbiati?! E che facciamo? Gli offriamo da bere? Gli raccontiamo una favola? La piccola fiammiferaia del cazzo dovevo tirarmi su!»
Fari alti.
Lampioni ovunque.
«Se mi salvo giuro non bestemmio più Dio, giuro non bestemmio più Dio… – un proiettile sfascia il lunotto posteriore – … porco!»
«No bestemiare!»
«Taci troia!»
La seconda auto prende terreno.
«Checcazzo, arrivano!»
«Gira qua tu!»
«Mi dai ordini ora?»
«Gira qua tu! Io dire io conosce strade io lavora qui!»
«Si, come no: lavora…»
L’auto svolta.
La seconda auto svolta.
«Checcazzo hai mente negra?»
«Tu va forte ora!»
«Tutto quello che volevi è che andassi forte?!»
Tace.
La velocità aumenta.
140.
150.
160.
Curva pericolosa.
«Ma che…. oh!»
Freno a mano.
Derapata perfetta.
L’auto riprende.
Idem gli altri.
«Devi ancora finire».
«Cosa?»
«T’ho dato trenta euro cazzo! Finisci il lavoro di prima!»
«Ora?»
«Un pompino cazzo! Quanto ci vuole?»
«Ma io…»
«Ch’è? Ho fatto vedere l’uccello a quelli stronzi là dietro per niente? Già che è colpa tua, zoccola! Se fosse per me avrei già avuto il mio bocchino bell’e fatto!»
«Sì, ma…»
«Ora!»
Cintura tolta.
Pantaloni abbassati.
Mani scure afferrano il pene.
«Ah…»
Occhi chiusi.
Riaperti.
Mani nere aprono una scatola di condom.
Estratto uno.
Aperto.
«Cazzo fai?»
Abbassa gli occhi.
«Preservativo…»
Rialza.
La guarda in faccia.
«Trenta euro e vuoi anche il preservativo?!»
«Ma…»
«Buttalo porca puttana!»
S’apre il finestrino.
Cade un preservativo.
«Dai cazzo ché faccio prima a farmelo fare da quegli stronzi là dietro cazzo!»
Abbassa il capo.
Apre la bocca.
S’infila il pene in bocca.
«Ah, sì…»
Rotonda stradale.
«Porca troiaaaaa!»
L’auto sulla sinistra.
Rotonda passata.
«Ahi cazzo!»
«Scusa».
«Attenta con quei cazzo di denti!»
Riprende a succhiare.
L’auto dietro aumenta la velocità.
Autovelox.
Due.
Tre.
Quattro flash.
Viene.
«Ah…»
Silenzio.
Sulla sinistra una via stretta.
Rallenta.
Svolta brusca.
Svoltano gli altri.
Passano.
Escono su una strada.
Riprendono.
La macchina ferma in un vicolo.
Seminati.
Silenzio.
Si rialza i pantaloni.
S’accende una cicca.
Aspira.
Espira.
Il fumo si propaga per l’abitacolo.
La guarda.
«Fatto alla cazzo, comunque.»



Volbeat - A Warrior's call:



Carlo Vanin, estratto dal racconto “Il suono del grande Babù”, pubblicato su Sugarpulp.it
Da fuori si sente un suono sordo. Come se qualcuno stesse battendo su una lamiera. [...] Malvolentieri mi alzo del letto e mi avvicino alle persiane. I tonfi si moltiplicano. C’è un batterista
pazzo là fuori, penso, che sta sfogando la sua rabbia su una macchina. Per fortuna che ho messo il bolide in garage….
No, cazzo. Quello era ieri. Stasera mi par proprio di ricordare che…
No, invece, non mi ricordo un cazzo.
Sussurro una bestemmia smozzicata e alzo le persiane. Son pallido anch’io adesso.
Nel frattempo si ode il rumore di un vetro che va in frantumi. Esco sul terrazzino e guardo giù, nel parcheggio comune.
Merda.
“Dani, che c’è?” Mi chiede la Vale ma io non rispondo.
Fuori è ancora notte. Ancora per poco, immagino. E… e c’è il vecchio Carraro.
C’è Carraro con una mazza da baseball laggiù. E mi sta sfasciando la Z4.
Lo stomaco, il mio stramaledetto stomaco, mi si stringe alle dimensioni di un oliva da spritz. Quasi mi piego in due dal dolore. Poi cerco di dire qualcosa ma la voce non mi esce, come in uno di quei brutti sogni in cui vuoi urlare ma non puoi.
“Ohi Dani…che c’è?” Mi chiede di nuovo la Vale.
“Ohi piccola, meglio che non vieni qua fuori.” Le dico e dopo averlo detto scatto.
Nella mia testa c’è poco o niente. So solo che devo fermare il merdoso. In tempo zero sto armeggiando con la serratura della porta di casa. Le mani mi tremano e nella mia pancia c’è qualcosa che ribolle più di un cesso chimico ad un rave.
“Dani, ‘ara che sei ancora in mutande.” Mi dice la Vale. La guardo: sta indossando la mia camicia.
“Non uscire! Stai qui!” La rimprovero ma cerco di dirlo in maniera dolce, anche se mi esce un cazzo di tono da bambino lamentoso.
Riesco ad aprire la porta e corro giù per le scale quasi rischiando di ammazzarmi. Appena esco dalla palazzina mi accorgo di essere in mutande perché fa un freddo cane. Non è il freddo, comunque, che mi fa tremare e non so neanch’io cos’è. Rabbia o paura o un misto delle due.
“Carraro!” Grido. “Che cazzo fai?”
Il vecchio è preso male. C’ha due borse sotto gli occhi che sembrano due canyon. La sua faccia è quella di un cane rabbioso. Respira pesantemente e stringe la sua mazza. Nella luce fredda dei lampioni sembra una specie di zombie.
“Figlio di puttana.” Mi dice fra gli ansimi.
“Che cazzo…?” Cerco di ripetere ma non finisco la frase perché Carraro mi carica. Oddio, non è che carica proprio, diciamo che si trascina verso di me agitando la mazza. Io arretro e do un occhio al mio bolide. Il cofano è bello che andato così come il parabrezza, un finestrino e uno specchietto retrovisore.
[...]
“Mi avete portato via tutto, bastardi figli di puttana!” Ruggisce e sembra che ci sia qualcosa che luccica nei suoi occhi. Passo dalla rabbia alla pena.
“Che cazzo volete di più?” Oscilla ancora la mazza e dalla foga quasi cade ma si mantiene miracolosamente in piedi. Torna ad ansimare più velocemente. Tira un lungo respiro e sputa tutto d’un fiato: “Ho lavorato per tutta la mia vita e adesso mi portate via tutto. Io ti ho detto che ho tutto investito che non posso tirare fuori i soldi. Io non ce li ho più i soldi, lo vuoi capire? Qua gli ordini non arrivano più. I tedeschi vanno in Cina adesso, io cosa ci devo fare?”
“Carraro, meglio se ti calmi dai…ti ho coperto io coi soldi, non c’è problema.” Gli dico io, anche se capisco che non sta mica parlando dei miei quattromila euro. Cerco di avvicinarmi e allungo anche una mano come per dire che va tutto bene. Mi ha distrutto la macchina ma va bene, almeno per adesso.
Niente da fare, il vecchio torna a scacciarmi con la mazza. Fa un passo in avanti e stavolta mi sa che cade proprio ma non cade.
“Che cosa volete da me?” Mi dice guardandomi, ma non guarda me in realtà. Son sicuro che sta piangendo ma senza lacrime, se è possibile. La sua voce è diventata una specie di ruggito di catrame. “Che cosa volete da me?” Ripete e torna ad avanzare.


Thomas Tono, estratto da “Space Invaders”, racconto pubblicato dal quotidiano Il Manifesto e disponibile online su Sugarpulp.it
- E questo – fa Giulio, – cosa cazzo è?
- Uhm… non lo so – dice Tony inclinando il capo di lato, – ma tu intanto datti da fare.
Giulio cerca e trova nella tasca il cellulare e inizia a filmare.
- Prima fammi una bella panoramica sulla zona e sull’astronave – lo istruisce Tony, – e in fine fai un primo piano a questo coso.
L’essere sembra respirare ancora. Ha varie abrasioni e tagli, uno abbastanza profondo su quella che dovrebbe essere la testa. Fuoriesce un liquido rosso del tutto simile al sangue. E’ come se con l’impatto avesse sbattuto la testa sul volante.
Si muove appena, ma è ancora vivo.
- Non assomiglia per niente ad E.T. – conclude delusa Valentina.
– Già – fa Tony, – sembra più un enorme ratto con una tuta da bebè.
- E’ disgustoso – esclama Giulio dietro la luce del cellulare.
- Sì, fa veramente schifo – analizza scientificamente Tony, – ma hai idea di quanti contatti potremmo fare con questa roba?
- Oh Gesù, non mi direte che abbiamo fatto tutta questa strada per YouTube, vero? – dice Valentina con il fiato che le rimane in gola.
- Naa…- scuote la testa Giulio – è pieno di questi filmati amatoriali, crederanno che sia solo uno dei tanti video taroccati che girano in rete.
Tony e Valentina lo guardano ammutoliti, Giulio non batte ciglio e continua a riprendere.
Tony ci pensa su per un po’.
- E allora diamogli un tocco di realismo in più – dice, e dà un colpo secco alla fune.
La sega parte ronzando. Tony si avvicina lentamente. Le lingue di fuoco alle sue spalle saettano verso il cielo che sembrano volersi divorare la luna. Dà più gas. I denti della lama prendono velocità e stridono in un suono metallico. L’essere alza quella che dovrebbe essere la testa, e da un foro della tuta fuoriesce una specie di proboscide che si allunga verso di lui.
I due si guardano. L’essere ha occhi quasi umani. Tony no.
- Sorridi stronzo, sei su YouTube.

Soundgarden - Black Hole Sun:

RICONCILIAZIONE di Annalisa Bruni tratto da Altri Squilibri Edizioni Helvetia

Come sei tranquilla, ora, qui, tra le mie braccia.
L'avevo promesso. Basta con le scenate. Niente più liti furibonde.
Accarezzo il tuo viso finalmente sereno. Sei bella, bella come non sei stata mai. Amore mio.
Bacio le tue labbra socchiuse e penso che sono stato fortunato, sai, quella volta che tu, tra tanti, hai scelto proprio me, sfidando il mondo.
Sfioro la tua fronte distesa con la punta delle dita, la tua pelle è liscia e morbida, come allora.
Adesso, però, è meglio che vada a lavarmi le mani.
Quel piccolo foro in mezzo agli occhi sanguina ancora.



giovedì 24 novembre 2011

Palpitante Noir



Ciao carissimi, vi rinnovo l'invito per questa sera al Vapore dalle 21.30 con PALPITANTE NOIR.
Grande serata con la presenza di Giacomo Brunoro presidente del movimento Sugarpulp.
Con lui si parlerà di un tema di estrema attualità come l'editoria digitale.
Tra gli scrittori Anna Girardi e Stefano Mattia Pribetti con l'interessante progetto VENOIR.
Confermata la presenza di Annalisa Bruni, Carlo Vanin, Carlo Callegari, Serena Casagrande, Thomas Tono, Francesco Pasquale,Marcello Fausto Dalla Pietà
e il coro interamente femminile delle Insolite Note.
Video e musica a cura di Stefano Marangoni.
Vi aspettiamo

lunedì 7 novembre 2011

Continua l'avventura!

Continua l'avventura di LetteralmenteAperta.
Dopo la serata del 27 ottobre scorso sul tema del VIAGGIO,  stimoliamo la vostra partecipazione attiva per giovedì 24 novembre. Tema: PALPITANTE NOIR
Il consiglio è quello di guardare al tema sempre in modo ampio e non restrittivo.
La formula resta uguale: costruite, tagliate,reinventate un pezzo che sia indifferentemente poesia, racconto, performance che stia in una cartella o in una lettura ad alta voce non superiore ai 3 minuti.
Ben accetti contributi fotografici, video, musicali
Sul blog troverete i nomi di alcuni lettori che si presteranno, se vorrete, ad interpretare il vostro testo.
A dare una mano nella selezione saranno anche questa volta Seba Pezzani consulente editoriale della Rizzoli, Irene Benussi e Nicolò Lovat delle librerie Lovat di Padova, Villorba, Trieste e Giacomo Brunoro direttore editoriale de La Case Italia.
 Per informazioni e invio scritti letteralmenteaperta@gmail.com
Termine ultimo per l'invio il 20 novembre
Passate parola e buon lavoro