sabato 26 novembre 2011

I testi del 24 novembre




Grazie a tutti quelli che c'erano, grazie a tutti quelli che hanno partecipato.
Nei prossimi giorni pubblicheremo una parte dei testi non letti.
Se avete materiale foto/video della serata inviatelo a letteralmenteaperta@gmail.com
Ecco i testi invece protagonisti di Palpitante Noir del 24 novembre:

La sera è incominciata con questo video: Kasabian  - switchblade smiles





Marcello Fausto Dalla Pietà
Per
Andare
Libero
Porterò
In
Tasca
Ali
Nate
Tra
Escrementi
Nascerà
Oltre
Il tempo la
Rosa

Unkle - The Runaway:

Serena Casagrande, estratto da “L'evento si terrà anche in caso di pioggia”, racconto pubblicato su Sugarpulp.it
Ora il grand’uomo si riappropria dell’unico ruolo che madre natura gli ha concesso: quello del coglione, appunto. Dallo zaino spuntano quattro lattine di birra da cinquecento ml del Lidl. Quatro Piere beve con l’ingordigia dello sprovveduto che non conosce affatto gli effetti dell’alcol e che non sa in che guaio si stia cacciando. Ma per mantenere fede alla sua indole, sciorina aneddoti improbabili a proposito di memorabili bevute. Lei tace e fissa il cielo nero. E aspetta. Meno del previsto, perché Quatro Piere è ancora più coglione di quel che immaginava. Dopo nemmeno un’ora (e tre lattine e mezza), la Bella Addormentata riposa beata. Ma non è a questa fiaba che Lara sta pensando. A lei viene in mente piuttosto il coretto dei Sette Nani della Disney, quando allegri se vanno in miniera con il piccone in spalla. “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”. Apre lo zaino ed estrae un piccone, non proprio da minatore (l’ha trovato nella casetta degli attrezzi da giardino), ma confacente al caso suo. “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”.
Non riesce a togliersi dalla testa questo ritornello mentre fracassa la testa di Quatro Piere a picconate. Nemmeno un urlo, solo un rantolo da bestiolina. “La classica fortuna dei dilettanti”, pensa. Senza saperlo, deve essere andata subito a botta sicura. Morto sul colpo, il povero coglione. In ogni caso, le casse degli autoscontri sparano a palla La funzione dei Subsonica e in cielo compaiono I primi fuochi d’artificio. Poteva anche prendersi la briga di gridare Quatro Piere: inutile fino alla fine. “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”. E’ l’unica melodia che le arriva al cervello e, lentamente, inizia a muovere le labbra, ad articolare suoni. E un sorriso liberatorio le si stampa in faccia, mentre con dell’erba toglie dalle sue Converse nere frammenti di scatola cranica e poltiglia di encefalo del fu Quatro Piere.
Non si preoccupa nemmeno di nascondere il corpo. La sua mente non l’ha previsto. Si limita a spingerlo in un fosso. Non si sente nemmeno il tonfo, le piante acquatiche attutiscono il rumore della caduta. Solo un rospo non gradisce. Getta il piccone, le scarpe e i vestiti sporchi di sangue in un sacco di nylon. Prende il cambio dallo zainetto e ci infila il sacchetto. Poi torna tranquillamente verso la sagra.
L’evento si terrà anche in caso di pioggia. Già! Però il tempo ha tenuto, meglio così. Passa di nuovo di fronte al cimitero. Tutto tace, “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”, canticchia a bassa voce. Esce ancora un fumo denso dalla cucina dello stand gastronomico: centinaia di persone si rimpinzano di costicine, porchetta e polenta. Alla faccia dei trentadue gradi Celsius che segna il termometro digitale della farmacia. Evita la zone con le giostre e la pesca di beneficenza, si avvia verso casa.
Domani ha la prima ora di scienze e non vuole assolutamente perderla. L’insegnante le ha promesso che le porterà la piromorfite.Spera che non la cerchino fino al termine della lezione.Perché, a Lara, questo minerale verde pistacchio piace da morire.

A lenta corsa  di Stefano Mattia Pribetti tratto da Venoir edizioni LT2
         A notte inoltrata le puttane iniziano il turno, e noi con loro. Siamo come le malattie del sangue, arriviamo in silenzio.
Ci chiamano operatori di siluro a lenta corsa, la scorta personale del tritolo, le sue braccia e le sue gambe. Siamo destinati ad accompagnare il siluro sotto le navi nemiche, lo cavalchiamo a tandem fino a quindici metri, dove l’unica luce è la fosforescenza dei quadranti al radiomir. Là sotto, bussola e profondimetro diventano i nostri occhi, e siamo gemelli siamesi attaccati per la testa. La testa del siluro si chiama “testa di servizio”, un servizio a domicilio. Contiene due quintali di tritolital e un congegno a tempo, dopo averla posizionata, il resto del siluro ci riporta a casa.
Non sbagliamo, noi del siluro a lenta corsa, è una corsa lenta perché la prepariamo per mesi. Anche per anni. È calcolata al centimetro, almeno la parte in cui arriviamo alla nave.
Per il ritorno improvvisiamo. Il ritorno è la parte per cui non ci addestrano.
Tre, due, uno, immersione.
Questo è il film peggiore del mio repertorio. Con l’acqua ad altezza occhiali avanziamo seguendo le voci di quelli che siamo pronti a far esplodere. Le spie luminose dei loro sigari, una canzone di bordo che, su un’altra nave, in un’altra lingua, ho già sentito. L’Ammiraglia Von Spee, nel suo asilo lagunare, ha oscurato tutte le stelle. C’è solo la piattaforma lanciamissili e le sagome dei cannoni contro un lembo di cielo nero. E poi sotto, l’acqua si chiude sopra le nostre teste e dissolve l’ultima luce rimasta.
Il profondimetro, ora segna meno tre metri. Buio verde cupo, temere ciò che non vediamo è il nostro mestiere, la paura del buio è il nostro radar.
Ora siamo a meno sette metri. C’è un’oscillazione anomala, non registrata dalla bolla della longitudine. Queste hanno tutta l’aria di essere vertigini.
Profondità meno dodici, avanti finché il verde cupo diventa nero pece: siamo entrati nell’ombra, nell’immane ombra dell’Ammiraglia Von Spee, ed è già tempo di risalire. Svuoto la cassa d’immersione, un “clang” che solo noi possiamo sentire.
Saliamo a meno undici metri. Lo scafo su di noi è enorme e si avvicina. Stiamo salendo ma sembra sia la nave a scendere finché non saremo seppelliti vivi sul fondo. Sensazione anomala, nausea anomala.
Meno dieci. Mettiamo un braccio sopra la testa. Pericolo di concrezioni marine sulla carena. Conchiglie, balani o denti di cane, pericolosi per noi che indossiamo solo gomma, stupida inutile gomma che basta una falla e diventa un vestito d’acqua gelida. Denti di cane, non pensare ai denti di cane. Sott’acqua, le immagini tendono a ingigantirsi. Aumento vertigini, urgenza risalita. Ipotizzata saturazione del filtro del respiratore, ipotizzata asfissia.
Meno nove. Gli operatori di siluro a lenta corsa sono silenziosi ed implacabili, e invece siamo pesci stupidi contro il ventre degli squali. Obbligo di salire con lentezza anche se urge emersione immediata, non mi intossicherò col mio stesso respiro e non vomiterò nella maschera.
Meno otto. La maschera è  un crostaceo non meglio identificato che artiglia alla nuca e insuffla gas velenoso nei polmoni.
Meno qualcosa. Non pensare ai denti di cane e a nessuna specie di crostaceo. Svuoto di colpo la  cassa d’immersione, lancetta del profondimetro che scorre troppo veloce. Mi strappo via il granchio dalla faccia, l’acqua sulla faccia è gelida, l’acqua nei polmoni è gelida.
Denti di cane in avvicinamento, denti di cane dentro la mia testa.

Anna Girardi – Nero e Colori tratto da Venoir edizioni Studio LT2
Il lunedì per Giovanni ha il colore del branzino, ed è della signora Luigia:
- Ciao Giovanni come va dammi due chili di sarde e la pesca tutto bene? e mezzo chilo di seppie sì, è un lavoro duro quello del mercato eh? lo so lo so anche il mio povero Mario l’ha fatto per un po’ quando era giovane e…Giovanni mai che ti veda in giro con una bella donna sempre solo sempre solo anche due triglie aggiungi va là…
Il martedì è rosa salmone, ed è di Giovanna: 23-24anni, perennemente in dieta, studentessa di Filosofia, forse Lettere:
- Le spigole a quanto sono? Sono fresche? Se non fosse così ossuta e occhialuta sarebbe anche carina, ma tanto, lei Giovanni non lo vede, ha Marco in testa lei, Marco e la sua chitarra e le vacanze con la Vespa su e giù per la Corsica. No, lei Giovanni proprio non lo vede. Non vede il colore dei suoi occhi, non vede le sue mani grosse eppure dolci che sfiorano, palpano e scelgono per lei le cose migliori.
Il mercoledì ha il colore sbiadito della moglie dell’architetto Frisoni che arriva dopo il consueto caffé lungo da Rosasalva:
- Buongiorno Giovanni, per oggi una dozzina di capesante; un polpo, ma non troppo grande; delle vongole, ma non troppo sabbiose; dei calamaretti, ma non troppo duri; metta tutto sul conto, grazie. Passerà più tardi Rashid, a prendere la borsa.
Elegantissima, ingioiellata anche solo per gironzolare annoiata fra i banchi del mercato, a scegliere con noncuranza il menu per un marito che è già tanto se torna una volta alla settimana da Milano, dai suoi uffici e da chissà cos’altro.
E Giovanni come sempre ascolta, silenzioso nel caos del mercato, tutti i giorni, in ogni stagione e con ogni tempo, mentre vende pesce nel suo dialetto dolce di laguna, con il Canal Grande a lambire di sale i suoi sogni interrotti di quando, bambino, voleva diventare pilota e far scorribande sulle onde del cielo. Giovanni sta lì, come in un quadro di Guttuso, incolore tra i colori, tra scaglie di speranza sciupata e carni polpose come dolore raggrumato. Sta lì, fino al venerdì.
Giorno di grande attesa, attesa di lei.
La sua Margherita. Il suo fiore.
Lui l’aspetta, aspetta lei che non sa di lui se non delle sue unghie sporche, dei suoi capelli biondo-scatola e dei suoi tatuaggi. Margherita va sempre vestita di nero e sa quello che vuole. Anche Giovanni vorrebbe saperlo. Margherita cerca la sua vita, se stessa. Giovanni non ci ha neppure provato. Ora tocca a lei, lì davanti a lui, tutta sua. Con quella sua voce piena di fumo e notti insonni. Non lo vede, non lo ascolta, non lo guarda neppure. Lui, invece.
- Buongiorno, secca, del pescespada, asciutta, una coda di rospo, assente, due mormi, fredda. Basta così. Quant’è? Ecco, grazie, arrivederci.
Si gira. Se ne va, veloce com’è arrivata e sorda, come sempre.
Tornerà venerdì. Come ogni i venerdì.
Tornerà?
Eh no, non tornerà mi spiace. Ma Lei dovrebbe saperlo, no? L’abbiamo trovata in una piccola spiaggia, lontano dal mercato, solo una rete la avvolgeva. Come un pece senza più via di scampo.
Sì. Così ho deciso.
Perché?
Perché ero stanco di stare lì, invisibile agli occhi di quelle donne che non sanno né guardare né ascoltare; in mezzo a quel pesce che mi marciva dentro, mentre mi sentivo affondare nell’acqua sempre più alta. Sì, ero stanco di tornare a casa a parlare col televisore, a passare la domenica aspettando il lunedì per vedere qualcuno, al mercato. Ero stanco di tutte quelle Luigia, Giovanna, Melissa. Ora basta Non ci sono più loro, non ci sono più io.
E infatti Luigia sta già dormendo il sonno dei Giusti, tra la fanghiglia di un fondale basso, non lontano da qui. Giovanna l’ha seguita un martedì, non era il suo giorno?
Sa, Melissa mi ha quasi ringraziato, l’ho visto dietro al terrore dei suoi occhi. E Margherita, la mia dolce Margherita, l’ho distesa sulla barca, quel venerdì, in una vecchia rete, e ho legato la
barca a una bricola in mezzo alla laguna, proprio dove andavo da bambino, con il nonno, e mi mettevo a guardare il cielo e gli aerei passare. Starò lì con lei, ho pensato mentre la seguivo. Finalmente le parlerò, le racconterò delle altre, e lei finalmente mi starà ad ascoltare. Non tornerai a casa, ho pensato.
No, non tornerà, Margherita. E non tornerà Lei. La condanna non sarà leggera, penso che lo sappia.
Non mi interessa, non tornerò. Non mi vedranno più.
Vedranno sa che non c’è al mercato.
Già, vedranno dice lei… vedranno che non mi vedranno…vedranno…vedranno…

Carlo Callegari, estratto dal romanzo “Che Dio ti aiuti, Bambola” di prossima pubblicazione con la casa editrice digitale LA CASE Production
Tony era veramente nano, ma il nano più cazzuto che avessi conosciuto in vita mia. Non che me ne avessero presentati chissà poi quanti di nani. Ma lui, ci avrei scommesso le palle, era sicuramente il più cazzuto di tutti. Viveva con le gemelle biologiche da sempre. Avevo sentito dire in giro che i tre si erano conosciuti ai tempi dell'asilo. Poi erano cresciuti, fatta eccezione per Tony, e avevano sempre mantenuto un grande affiatamento. Un'altra voce ricorrente era quella che le gemelle scopassero solo con lui e, anche in questo caso, non faticavo a credere che fosse la verità.
Tony era una nano in versione tirolese. Portava, sia in estate che in inverno, sempre lo stesso paio di pantaloni a coste in velluto verde, lunghi fino alle ginocchia. Anche le bretelle gialle lo seguivano ovunque, come pure la camicia bianca con ricami floreali al centro e sulla schiena. L'unico indizio del cambio stagione erano le calzature. Scarpe ortopediche con calzino bianco fino al ginocchio, per l'inverno. Infradito e piedi nudi per l'estate. A corredo di tutto una Smith and Wesson calibro quarantacinque con canna cromata e calcio in madreperla, perennemente infilata nella patta dei pantaloni. La canna della pistola era talmente lunga che Tony era costretto a camminare con una gamba rigida.
Per finire, ironia della sorte, il suo cognome. Il buon Dio aveva deciso di prenderlo per il culo fin dalla nascita. Tony il nano, all'anagrafe, risultava registrato come Antonio Piccolo...
Quindi, che lo chiamassi Tony il nano o che lo chiamassi Tony Piccolo, l'effetto era sempre il medesimo. Rischiavi un buco nello stomaco ad opera del suo cannone cromato.
Con un ronzio elettrico si aprì il portoncino d'ingresso e salii.
Fui accolto da Tony e dal suo cannone luccicante.
“Ciao Carlito.”
“Ciao Tony.”
“Hai controllato di non essere seguito?”
“Sì Tony.”
“Hai seguito le strade che ti avevo indicato nella lettera?”
“Sì Tony.”
“Hai spento il telefono?”
“Sì Tony.”
“Hai un vestito da cristiano, sotto a quel cappotto?”
“Sì Tony.”
“Allora vaffanculo ed entra!”
“Sì Tony.”
“E smettila di dire sì Tony, cazzo! Mi sembri uno stronzo di automa. Sì Tony, no Tony, sì Tony. Vaffanculo cazzo!
“Sì Tony” dissi sorridendo.
Lui si voltò e mise la sua piccola mano grassoccia, fra l’altro guarnita con un enorme anello d’oro a forma di testa di leone, sul calcio della pistola.
“La vedi la canna del mio ferro? Te la ficco dove il sole non arriva nemmeno a mezzogiorno e ti faccio la rettoscopia. Come rispondi?
“No, Tony.”
“Bravo ragazzo” disse sorridendo. “Adesso va meglio.”
Quel nano vestito da tirolese aveva la capacità di mettermi di buonumore. Infondo gli volevo bene. Mi invito ad accomodarmi in un divano all'ultima moda ma decisamente pacchiano.
Tony invece si sedette su di una piccola sedia in plastica rosa che sembrava essere uscita direttamente dalla casa della Barby.
“Non dire niente ragazzo” mi disse quando si accorse che lo osservavo divertito. “Si è rotta la mia vecchia sedia di paglia e così l'ho portata a sistemare. Questa è solo provvisoria. L'ho comperata in un negozio di giocattoli. Era in esposizione all'interno di una casetta in plastica per bambini. Sai, quelle da mettere in giardino affianco allo scivolo e l'altalena. Fra le altre cose volevano vendermi
pure quella.”
“L'altalena?” dissi ridendo.
“La casetta” fece lui guardandomi serio.
Alzai le mani in segno di resa.
“Di cosa volevi parlarmi?” chiese nuovamente.
“Trovavo giusto dirti che le gemelle mi hanno appena proposto uno strano rituale di purificazione.”
“E lo hai già finito?”
“No. Non l’ho mai cominciato. Per una forma di rispetto nei tuoi confronti ho preferito rinunciare. Ad ogni modo ho trovato giusto dirtelo.”
“Hai fatto bene ragazzo. Comunque quello era solo un rituale, niente di più. Non si lasciavano scopare per amore o altre balle varie. Lo volevano fare solamente per darti una mano. Credimi, dovresti sentirti onorato. Le persone che hanno potuto usufruirne, nell’arco di molti anni, si possono contare sulle dita di una mano. Io, ovviamente, sono una di quelle dita.”
“Grazie Tony. Dovessi stendere un’altra persona, promesso che ci farò un pensiero.”
“Bravo, perché non sai cosa ti sei appena perso. Quelle due donne sono fantastiche, hanno il fuoco dentro. Io devo essere arrivato al quinto, o forse sesto rito di purificazione, adesso non ricordo bene.”
“Con questo mi stai dicendo che tu…”
Il nano portò la sua grassoccia mano davanti al naso, quindi alzò il dito indice.
“Shhh. Mai fare troppe domande, ragazzo. Nel nostro settore si potrebbe finire diritti al campo santo, nella migliore delle ipotesi.”
“Forse volevi dire nella peggiore delle ipotesi.”
“No. Volevo proprio dire nella migliore. Nella peggiore finisci dentro ad un argine, senza nemmeno una bara ed un posto dove i tuoi cari possano piangerti. E’ una bella differenza, credimi. Oltretutto è pure una grande rottura di coglioni per chi deve scavare la fossa. Io lo so bene, perché qualche anno fa ho perso una notte intera a scavarne una dalle parti di Fiesso d’Artico.”
Sorrise nuovamente.
“L’unico stramaledetto cinese alto più di un metro e settanta me lo sono beccato io. Non sembra, ma venti centimetri fanno la differenza quando stai scavando una dannata fossa… Adesso però vai e vedi di non farti seguire da qualche stronzo. Noi ci aggiorniamo a dopo domani.”
Prima che potessi aggiungere altro il nano mi aveva già sbattuto la porta in faccia.

Depeche Mode - I feel you:



Francesco Pasquale, “A ruota”, racconto pubblicato su Sugarpulp.it
SP 10 Padana Superiore.
Notte.
Capannoni e officine.
130 all’ora di automobile.
«Cazzo cazzo cazzo! Maledetta puttana!»
Supermercati e outlet.
«Ma chi cazzo me l’ha messo in testa di fare?»
«Ma io…»
«Taci zoccola!»
Cartello blu Vicenza.
Cartello blu Verona.
«Credi che me piacere prenderlo da tutti?»
«Taci t’ho detto! Mica mi puoi mettere contro i tuoi protettori!»
«Io no soldi. Io pagare afitto. Io…»
«Chiudi quella bocca di merda!»
L’auto curva a 45°.
Stridore di gomme.
«Che situassion demmerda!»
Una seconda auto curva a 45°.
«Proiettili rimbalzano sulla portiera.»
«Pure ci sparano ora!»
«Loro no cattivi. Loro solo arabiati!»
«Arrabbiati?! Arrabbiati?! E che facciamo? Gli offriamo da bere? Gli raccontiamo una favola? La piccola fiammiferaia del cazzo dovevo tirarmi su!»
Fari alti.
Lampioni ovunque.
«Se mi salvo giuro non bestemmio più Dio, giuro non bestemmio più Dio… – un proiettile sfascia il lunotto posteriore – … porco!»
«No bestemiare!»
«Taci troia!»
La seconda auto prende terreno.
«Checcazzo, arrivano!»
«Gira qua tu!»
«Mi dai ordini ora?»
«Gira qua tu! Io dire io conosce strade io lavora qui!»
«Si, come no: lavora…»
L’auto svolta.
La seconda auto svolta.
«Checcazzo hai mente negra?»
«Tu va forte ora!»
«Tutto quello che volevi è che andassi forte?!»
Tace.
La velocità aumenta.
140.
150.
160.
Curva pericolosa.
«Ma che…. oh!»
Freno a mano.
Derapata perfetta.
L’auto riprende.
Idem gli altri.
«Devi ancora finire».
«Cosa?»
«T’ho dato trenta euro cazzo! Finisci il lavoro di prima!»
«Ora?»
«Un pompino cazzo! Quanto ci vuole?»
«Ma io…»
«Ch’è? Ho fatto vedere l’uccello a quelli stronzi là dietro per niente? Già che è colpa tua, zoccola! Se fosse per me avrei già avuto il mio bocchino bell’e fatto!»
«Sì, ma…»
«Ora!»
Cintura tolta.
Pantaloni abbassati.
Mani scure afferrano il pene.
«Ah…»
Occhi chiusi.
Riaperti.
Mani nere aprono una scatola di condom.
Estratto uno.
Aperto.
«Cazzo fai?»
Abbassa gli occhi.
«Preservativo…»
Rialza.
La guarda in faccia.
«Trenta euro e vuoi anche il preservativo?!»
«Ma…»
«Buttalo porca puttana!»
S’apre il finestrino.
Cade un preservativo.
«Dai cazzo ché faccio prima a farmelo fare da quegli stronzi là dietro cazzo!»
Abbassa il capo.
Apre la bocca.
S’infila il pene in bocca.
«Ah, sì…»
Rotonda stradale.
«Porca troiaaaaa!»
L’auto sulla sinistra.
Rotonda passata.
«Ahi cazzo!»
«Scusa».
«Attenta con quei cazzo di denti!»
Riprende a succhiare.
L’auto dietro aumenta la velocità.
Autovelox.
Due.
Tre.
Quattro flash.
Viene.
«Ah…»
Silenzio.
Sulla sinistra una via stretta.
Rallenta.
Svolta brusca.
Svoltano gli altri.
Passano.
Escono su una strada.
Riprendono.
La macchina ferma in un vicolo.
Seminati.
Silenzio.
Si rialza i pantaloni.
S’accende una cicca.
Aspira.
Espira.
Il fumo si propaga per l’abitacolo.
La guarda.
«Fatto alla cazzo, comunque.»



Volbeat - A Warrior's call:



Carlo Vanin, estratto dal racconto “Il suono del grande Babù”, pubblicato su Sugarpulp.it
Da fuori si sente un suono sordo. Come se qualcuno stesse battendo su una lamiera. [...] Malvolentieri mi alzo del letto e mi avvicino alle persiane. I tonfi si moltiplicano. C’è un batterista
pazzo là fuori, penso, che sta sfogando la sua rabbia su una macchina. Per fortuna che ho messo il bolide in garage….
No, cazzo. Quello era ieri. Stasera mi par proprio di ricordare che…
No, invece, non mi ricordo un cazzo.
Sussurro una bestemmia smozzicata e alzo le persiane. Son pallido anch’io adesso.
Nel frattempo si ode il rumore di un vetro che va in frantumi. Esco sul terrazzino e guardo giù, nel parcheggio comune.
Merda.
“Dani, che c’è?” Mi chiede la Vale ma io non rispondo.
Fuori è ancora notte. Ancora per poco, immagino. E… e c’è il vecchio Carraro.
C’è Carraro con una mazza da baseball laggiù. E mi sta sfasciando la Z4.
Lo stomaco, il mio stramaledetto stomaco, mi si stringe alle dimensioni di un oliva da spritz. Quasi mi piego in due dal dolore. Poi cerco di dire qualcosa ma la voce non mi esce, come in uno di quei brutti sogni in cui vuoi urlare ma non puoi.
“Ohi Dani…che c’è?” Mi chiede di nuovo la Vale.
“Ohi piccola, meglio che non vieni qua fuori.” Le dico e dopo averlo detto scatto.
Nella mia testa c’è poco o niente. So solo che devo fermare il merdoso. In tempo zero sto armeggiando con la serratura della porta di casa. Le mani mi tremano e nella mia pancia c’è qualcosa che ribolle più di un cesso chimico ad un rave.
“Dani, ‘ara che sei ancora in mutande.” Mi dice la Vale. La guardo: sta indossando la mia camicia.
“Non uscire! Stai qui!” La rimprovero ma cerco di dirlo in maniera dolce, anche se mi esce un cazzo di tono da bambino lamentoso.
Riesco ad aprire la porta e corro giù per le scale quasi rischiando di ammazzarmi. Appena esco dalla palazzina mi accorgo di essere in mutande perché fa un freddo cane. Non è il freddo, comunque, che mi fa tremare e non so neanch’io cos’è. Rabbia o paura o un misto delle due.
“Carraro!” Grido. “Che cazzo fai?”
Il vecchio è preso male. C’ha due borse sotto gli occhi che sembrano due canyon. La sua faccia è quella di un cane rabbioso. Respira pesantemente e stringe la sua mazza. Nella luce fredda dei lampioni sembra una specie di zombie.
“Figlio di puttana.” Mi dice fra gli ansimi.
“Che cazzo…?” Cerco di ripetere ma non finisco la frase perché Carraro mi carica. Oddio, non è che carica proprio, diciamo che si trascina verso di me agitando la mazza. Io arretro e do un occhio al mio bolide. Il cofano è bello che andato così come il parabrezza, un finestrino e uno specchietto retrovisore.
[...]
“Mi avete portato via tutto, bastardi figli di puttana!” Ruggisce e sembra che ci sia qualcosa che luccica nei suoi occhi. Passo dalla rabbia alla pena.
“Che cazzo volete di più?” Oscilla ancora la mazza e dalla foga quasi cade ma si mantiene miracolosamente in piedi. Torna ad ansimare più velocemente. Tira un lungo respiro e sputa tutto d’un fiato: “Ho lavorato per tutta la mia vita e adesso mi portate via tutto. Io ti ho detto che ho tutto investito che non posso tirare fuori i soldi. Io non ce li ho più i soldi, lo vuoi capire? Qua gli ordini non arrivano più. I tedeschi vanno in Cina adesso, io cosa ci devo fare?”
“Carraro, meglio se ti calmi dai…ti ho coperto io coi soldi, non c’è problema.” Gli dico io, anche se capisco che non sta mica parlando dei miei quattromila euro. Cerco di avvicinarmi e allungo anche una mano come per dire che va tutto bene. Mi ha distrutto la macchina ma va bene, almeno per adesso.
Niente da fare, il vecchio torna a scacciarmi con la mazza. Fa un passo in avanti e stavolta mi sa che cade proprio ma non cade.
“Che cosa volete da me?” Mi dice guardandomi, ma non guarda me in realtà. Son sicuro che sta piangendo ma senza lacrime, se è possibile. La sua voce è diventata una specie di ruggito di catrame. “Che cosa volete da me?” Ripete e torna ad avanzare.


Thomas Tono, estratto da “Space Invaders”, racconto pubblicato dal quotidiano Il Manifesto e disponibile online su Sugarpulp.it
- E questo – fa Giulio, – cosa cazzo è?
- Uhm… non lo so – dice Tony inclinando il capo di lato, – ma tu intanto datti da fare.
Giulio cerca e trova nella tasca il cellulare e inizia a filmare.
- Prima fammi una bella panoramica sulla zona e sull’astronave – lo istruisce Tony, – e in fine fai un primo piano a questo coso.
L’essere sembra respirare ancora. Ha varie abrasioni e tagli, uno abbastanza profondo su quella che dovrebbe essere la testa. Fuoriesce un liquido rosso del tutto simile al sangue. E’ come se con l’impatto avesse sbattuto la testa sul volante.
Si muove appena, ma è ancora vivo.
- Non assomiglia per niente ad E.T. – conclude delusa Valentina.
– Già – fa Tony, – sembra più un enorme ratto con una tuta da bebè.
- E’ disgustoso – esclama Giulio dietro la luce del cellulare.
- Sì, fa veramente schifo – analizza scientificamente Tony, – ma hai idea di quanti contatti potremmo fare con questa roba?
- Oh Gesù, non mi direte che abbiamo fatto tutta questa strada per YouTube, vero? – dice Valentina con il fiato che le rimane in gola.
- Naa…- scuote la testa Giulio – è pieno di questi filmati amatoriali, crederanno che sia solo uno dei tanti video taroccati che girano in rete.
Tony e Valentina lo guardano ammutoliti, Giulio non batte ciglio e continua a riprendere.
Tony ci pensa su per un po’.
- E allora diamogli un tocco di realismo in più – dice, e dà un colpo secco alla fune.
La sega parte ronzando. Tony si avvicina lentamente. Le lingue di fuoco alle sue spalle saettano verso il cielo che sembrano volersi divorare la luna. Dà più gas. I denti della lama prendono velocità e stridono in un suono metallico. L’essere alza quella che dovrebbe essere la testa, e da un foro della tuta fuoriesce una specie di proboscide che si allunga verso di lui.
I due si guardano. L’essere ha occhi quasi umani. Tony no.
- Sorridi stronzo, sei su YouTube.

Soundgarden - Black Hole Sun:

RICONCILIAZIONE di Annalisa Bruni tratto da Altri Squilibri Edizioni Helvetia

Come sei tranquilla, ora, qui, tra le mie braccia.
L'avevo promesso. Basta con le scenate. Niente più liti furibonde.
Accarezzo il tuo viso finalmente sereno. Sei bella, bella come non sei stata mai. Amore mio.
Bacio le tue labbra socchiuse e penso che sono stato fortunato, sai, quella volta che tu, tra tanti, hai scelto proprio me, sfidando il mondo.
Sfioro la tua fronte distesa con la punta delle dita, la tua pelle è liscia e morbida, come allora.
Adesso, però, è meglio che vada a lavarmi le mani.
Quel piccolo foro in mezzo agli occhi sanguina ancora.



giovedì 24 novembre 2011

Palpitante Noir



Ciao carissimi, vi rinnovo l'invito per questa sera al Vapore dalle 21.30 con PALPITANTE NOIR.
Grande serata con la presenza di Giacomo Brunoro presidente del movimento Sugarpulp.
Con lui si parlerà di un tema di estrema attualità come l'editoria digitale.
Tra gli scrittori Anna Girardi e Stefano Mattia Pribetti con l'interessante progetto VENOIR.
Confermata la presenza di Annalisa Bruni, Carlo Vanin, Carlo Callegari, Serena Casagrande, Thomas Tono, Francesco Pasquale,Marcello Fausto Dalla Pietà
e il coro interamente femminile delle Insolite Note.
Video e musica a cura di Stefano Marangoni.
Vi aspettiamo

lunedì 7 novembre 2011

Continua l'avventura!

Continua l'avventura di LetteralmenteAperta.
Dopo la serata del 27 ottobre scorso sul tema del VIAGGIO,  stimoliamo la vostra partecipazione attiva per giovedì 24 novembre. Tema: PALPITANTE NOIR
Il consiglio è quello di guardare al tema sempre in modo ampio e non restrittivo.
La formula resta uguale: costruite, tagliate,reinventate un pezzo che sia indifferentemente poesia, racconto, performance che stia in una cartella o in una lettura ad alta voce non superiore ai 3 minuti.
Ben accetti contributi fotografici, video, musicali
Sul blog troverete i nomi di alcuni lettori che si presteranno, se vorrete, ad interpretare il vostro testo.
A dare una mano nella selezione saranno anche questa volta Seba Pezzani consulente editoriale della Rizzoli, Irene Benussi e Nicolò Lovat delle librerie Lovat di Padova, Villorba, Trieste e Giacomo Brunoro direttore editoriale de La Case Italia.
 Per informazioni e invio scritti letteralmenteaperta@gmail.com
Termine ultimo per l'invio il 20 novembre
Passate parola e buon lavoro

giovedì 3 novembre 2011

I Testi del 27 Ottobre
































VIENNA  di Elisabetta Rosadi      
25 febbraio
La consapevolezza nello scegliere il treno come mezzo per viaggiare è che il tuo viaggio avrà un impatto inquinante molto più basso rispetto a un aereo. Contribuirai a migliorare il mondo. Scegliere una cuccetta in scompartimento per sole donne significa che avrai sicuramente delle compagne interessanti, nel bene o nel male.
La mia compagna di viaggio, oggi, è un’australiana che legge “Revenge of the middle age woman”. Ha una valigia un po’ più grande della mia, ma non troppo, considerato il fatto che viene dall’Australia. Siamo vestite allo stesso modo: jeans, maglietta, maglia pesante, calzettoni e scarpe comode.
E’ una radiologa in vacanza, è stata con amici a Belgrado, a Sarajevo, a Venezia, a Cortina a sciare, ora prosegue da sola per Vienna e Bratislava. Fra qualche giorno andrà a Dubai: lei sì, che viaggia davvero.
26 febbraio
Sono quasi le 7 del mattino, ho dormito bene, temperatura perfetta e buona 
insonorizzazione nel treno austriaco.
Alzo la tendina del finestrino: fuori c’è nebbia, come se fossimo ancora a Venezia, ma si vede la campagna e l’inizio del bosco, la legna accatastata in modo ordinato, nei pressi dei casolari.
Anche la mia compagna di viaggio si è svegliata, ci salutiamo e guardiamo fuori. 
Poi il cielo si apre, diventa azzurro, il sole indora le case di Vienna. Alle 8 e trenta scendo dal treno, dopo aver salutato l’australiana. Non sappiamo neppure i nostri nomi, ma che importanza ha. Ha un bel sorriso.
Mi avvio decisa fuori della Westbanhof e mi accorgo che non so dove andare. Studio la mappa: devo imboccare la MariahilferStrasse. Pongo domande nel mio tedesco creativo e una signora bionda me la indica. Facilissimo, ho già capito com’è questa città. La giornata è favolosa, il cielo è limpido, il sole è caldo, siamo a 12 gradi.
Peccato che io indossi montone, maglione e calzettoni di lana; trascinando il mio piccolo trolley per la strasse più prestigiosa della città. Chi se ne frega.
A Vienna la gente non sembra occupata, o che debba lavorare: sembra sempre 
passeggiare. Telefonano. Chiacchierano. Trascorrono le giornate sulle panchine dei loro cento parchi, senza ombra di cartacce o mozziconi. Sono tutti vestiti più leggeri di me, qualcuno anche in maniche corte. Per fortuna non mi sono portata i moon boot, come avevo pensato di fare.
Le auto viaggiano lentamente e si fermano per far attraversare il pedone fermo sul ciglio della strada. Se il segnale dei pedoni è rosso, nessuno attraversa, anche se la strada è priva di auto.
Ho acquistato degli affettati tipici e del pane scuro con cereali bio, una birra austriaca, e una spazzola per capelli, perché ho scoperto di essermela dimenticata, infatti, stamattina, scesa dal treno, sembravo un istrice. La commessa della profumeria mi ha regalato dei campioni di profumo: forse ne avevo bisogno, dopo aver camminato a lungo con stivaloni e montone, sotto il sole?
27 febbraio
Frustuck sublime.
Credo sia impossibile mangiare tutto questo ben di dio di prima mattina.
Soffici brioche, tortine e pane ai mille gusti, marmellate, mieli, cioccolata, burri, patè, succhi, yogurth, fiocchi di cereali, delizie salate, salumi, formaggi, salse, leccornie calde,frutta fresca: papaia, meloni, fragole.
Primo pensiero del giorno: che bello volersi bene! 
Come previsto dal meteo austriaco, è arrivato un gran freddo, per fortuna ho il montone!
Al Belvedere Inferiore, stupenda mostra di Kokotschka, visioni dal meraviglioso odore di colori a olio. Fuori, i giardini del Belvedere in inverno sono terribilmente tristi e le fontane vuote. Nuvoloni compatti e gelati vanno via veloci. 
Al Belvedere Superiore, è fantastica l’esposizione dei pittori viennesi.
Proseguo a piedi fino al Danubio: sembra un canale dalle sponde di cemento, l’acqua è scura. Osservo a lungo, ma non riesco a percepire alcuna sfumatura blu.
Torno indietro fino a StephansDom, guardo le vetrine, mi fermo al caffè Sacher e faccio qualche acquisto.
28 febbraio.
Ho fatto un brutto sogno. Mi volevano operare, infilarmi una sonda da sotto il braccio, dentro il corpo. Avevo paura. Mi sono svegliata,e ho pensato a mio figlio. 
Per fortuna ho deciso di regalarmi questo viaggio a Vienna: viaggiare rilassa, apre la mente, ti dona un sacco di belle cose e i bei doni non si buttano mai via. 
Mi sono fatta un regalo di compleanno: ne compio 49. Difficile pronunciarli, anche solo pensarli. Sono tanti, una enormità di anni. Ho voluto essere qui, oggi, solo per fermare questo attimo e poterlo raccontare.






Anita Menegozzo 
VIAGGIO
Che treno salperà e per quale cielo
a te che il viaggio sposta solo l'aria
che soffia giusto dietro la tua nuca
e non contento e ossesso ti racconti
...Io vidi , io presi io piansi 
io tanto fortemente mi commossi
per primo io fra tutti me ne accorsi...
kilometri a migliaia e non una parola
che parli un poco d'altro che te stesso 
Quel te che tanto dici di cercare
che suona così bene a dirsi in giro
te stesso quello vero, che a stento riconosci
non fa che ribussare alla tua spalla
e tu non te ne accorgi 
o peggio forse fingiTe stesso se lo cerchi, dammi retta 
ti esce dolcemente da quei tagli 
che naufrago tu senti alle ginocchia
per le conchiglie sparse sulla riva
ti esplode forte dentro e ti  stupisce
e affonda tra le risa e nei singhiozzi 
le unghie fino ai denti alla battigia






Cristiano Prakash Dorigo tratto da Supermarket Nordest


Mia madre insisteva con forza. Più era debole, fragile, sola, più s’impuntava e insisteva. Lo sai che tuo cugino è già andato, che se la cava bene, diceva sempre. E io rispondevo che era vero, ma che non potevoandare così, senza sapere cos’avrebbe fatto lei, da sola, senza appoggi, senza un uomo che la proteggesse.
E lei diceva che non dovevo preoccuparmi, che i parenti le sarebbero stati vicino. Vai, è il tuo viaggio: ti aspetta! Nel nostro quartiere abitava uno che prestava i soldi: non si parte per un viaggio,senza; e lui te li prestava. Bisognava però pensarci bene: guai a non restituirglieli, e con gli interessi: avrebbe perseguitato tutta la famiglia,nessuno escluso, senza pietà. Per arrivare al punto ics bisognava partire almeno un giorno prima. Mia madre mi ha preparato il bagaglio. Abbiamo preso uno zaino, perché è grande come una valigia ed è più comodo da portare in viaggio. L’ho abbracciata forte, le ho giurato che l’avrei chiamata appena arrivato; ho nascosto il mio viso al suo sguardo perché un uomo non si fa vedere quando piange. Lei invece
non si è nascosta e mi ha dedicata la più bella poesia d’amore, coi suoi occhi. Volevo chiederle di dirmi la verità, sapere dove fosse mio padre, perché era sparito, ma ho taciuto: le avevo promesso di non parlarne più, e io mantengo le promesse. Il suo ultimo gesto è stato una carezza delicata sui miei capelli neri come la notte, come amava ripetere lei quando ero bambino. Sono partito. Ho attraversato la pianura arida, il deserto, con un pullman vecchio e rumoroso, così pieno di gente che quasi mancava l’aria. Eravamo tutti
sudati,stufi, tramortiti dalla polvere, dalle buche, dal caldo insopportabile. Alla frontiera bisognava mettere un po’ di soldi dentro il documento e si passava senza problemi. A me è andata bene; a molte persone, soprattutto alle donne,invece, è andata male. Le hanno lasciate lì, al confine, senza documenti, senza bagaglio, senza più niente. Qualcuna invece, è stata portata via, dove si dice che, se gli va bene, escono sfigurate, incinte, ma vive. Se una di queste fosse mia sorella, mia cugina o mia madre cosa farei? Non mi sono risposto: ho solo chiuso gli occhi e pregato che certi brutti pensieri non mi toccassero più. Quando sono arrivato in centro città, sono andato al mercato, mi sono mischiato alla folla, ho camminato tutto il
giorno da un banchetto all’altro, cercando di non farmi notare e tenendo sempre stretto lo zaino. Quando ha iniziato a calare il sole, aiutato dall’odore di salso, mi sono incamminato verso il mare. Non avevo più molto tempo, non potevo permettermi di sbagliare posizione, né parlare con nessuno: mi avevano avvisato che qui è pieno di spie della polizia che, in cambio di poco, o perché costretti, denunciano chiunque. Ho raggiunto la spiaggia, invisibile come tutti quelli come me. Ci siamo tutti nascosti tra gli alberi in attesa del
segnale. La spiaggia era immobile, il mare era un tappeto nero, il cielo, dapprima luminoso di stelle,si è via via incupito fino a sparire nel suo stesso buio. Il rumore delle onde si faceva sempre più rabbioso, il vento
sparava la sabbia con violenza,l’elettricità dell’aria s’accoppiava alla nostra tensione. All’improvviso il segnale. Dei colpi di luce che ondeggiavano al largo. All’improvviso siamo usciti di corsa, a decine: visti dall’alto saremmo sembrati formiche. Abbiamo raggiunto il peschereccio superando onde sempre più violente. Una volta saliti a bordo, tutti seduti sul ponte, gli spruzzi del mare, il gonfiarsi del vento,la pioggia che iniziava a scendere violenta. Il mio ultimo pensiero a te,madre, che mi proteggi col tuo amore che, lo giuro, ricambierò coi fatti: coi soldi per la casa e per il debito. Tornerò per rimanere: mi sposerò e farò figli che saranno nipoti felici. Sperando passi in fretta questa notte di tempesta. Era l’agosto del 2008 e dei 78
eritrei imbarcati, ne arrivarono 5: gli altri 73,annegati.




5 METRI IN LINEA D'ARIA
di Maddalena Lotter
Tra le sette e le otto della mattina l'unico senso completamente funzionante è l'udito.
I primi suoni sono le voci arrochite dei famigliari mentre preparano la colazione in cucina e si scambiano le frasi di inizio giornata.
Va bene, adesso mi alzo.
Calcolo la distanza tra la mia posizione attuale e il bagno: sono cinque metri in linea d'aria,non di più. 
Certo, bisogna tener conto degli spigoli nelle camere e dei possibili ostacoli da evitare durante il percorso, 
ciabatte, libri impilati, ma non sono più di cinque metri in linea d'aria.
Mi volto a pancia in su e penso che si possono fare un sacco di cose in cinque metri: Glauco e Diomede hanno discusso 
sulla loro stirpe a meno di tre metri di distanza, mentre attorno a loro si decideva il destino degli Achei e dei Troiani.
Intraprendendo uno sforzo che a me pare sovrumano, mi alzo e infilo le pantofole.
Raggiungo il gabinetto pensando lungo tutto il tragitto al fatto che sto 
percorrendo all'incirca cinque metri in linea d'aria, e comincio a percepire attorno a me una spazialità definita, un volume di cui prima non mi ero accorta.
Mi lavo il viso e riconosco la snervante quotidianità di alcuni gesti, di quelle piccole esigenze.
Mi siedo sul bordo della vasca, quasi affranta, e comincio a calcolare le distanze di alcuni bagni che ho frequentato in giro per il mondo partendo da una stanza da letto.
L'albergo di Stoccolma salta subito alla mente: due anni fa lui e io siamo andati in Svezia,
scegliendo la meta a caso sul mappamondo; ricordo che la porta del bagno era praticamente a ridosso del letto matrimoniale. 
La stanza era una business (avevamo prenotato una standard ma per un errore fortunato eravamo stati collocati in una camera migliore), 
all'ultimo piano. Più aNordvai, più il cielo ti cade sulla testa.
Se invece tornavo virtualmente tra i corridoi logori e puzzolenti di quell'ostello di Londra mi tornava il dolore alla pianta dei piedi: per raggiungere
 il primo cesso dello stabile dovevi scammellare lungo un corridoio su cui pendevano luci al neon bluastre, per una rampa di scale
gelide anti-incendio e per altri sei o sette metri in linea d'aria. Quando dovevo andare a fare la pipì in quell'ostello londinese mi venivano 
sempre i crampi, perché svegliarsi in piena notte e, raggrinziti dal sonno, sgattaiolare sulla moquette (gli inglesi hanno un rapporto morboso con la moquette) e poi su quelle scale fredde, temendo di incontrare qualche losco individuo a ogni incrocio di corridoi è un'esperienza che ti mette addosso una certa fretta, e i piedi, stanchi dalle giornate passate tra British Museum e vari posti il cui nome finisce con “- Gallery”, non avevano più voglia di correre.
Ma il campeggio sul lago di Bolsena batte tutte le distanze in linea d'aria: nel giardino di casa di alcuni conoscenti che ci hanno ospitati, il mio migliore 
amico e io abbiamo piantato una tenda(che è diventata in meno di due ore un'appendice del mio caos casalingo) e prima di arrivare al bagno, che 
si trovava dentro la casa, bisognava percorrere non solo una quindicina di metri de facto, tra fili d'erba rugiadosi e formichine moleste, ma era necessario anche svegliare tutti con una scampanellata notturna. Pertanto, quando scappava di notte bisognava tenersela, o se volevi c'era il lago.
Una distanza frustrante è stata senza dubbio quella sul traghetto per raggiungere la Grecia, una delle prime volte in cui ci sono montata sopra, 
senza sapere a cosa andassi incontro; le cabine di quella nave sono talmente strette che se non hai mai sofferto di claustrofobia quello è il momento buono per cominciare a farlo. 
Accoccolata in una di quelle cuccette, a parlare di cose da sedicenni, mi sembrava che anche i miei organi interni si contraessero su se stessi.
Il problema della cabina era che, se qualcuno di noi quattro usava il bagno, quello era talmente vicino e i suoi muri talmente sottili che gli altri presenti sentivano tutti i rumori, per cui non eracosì facile abbandonarsi al piacere dell'evacuazione dei rifiuti organici. Non per una ragazzina di
sedici anni, che per sentirsi idonea alla vita deve fingere di non fare mai la cacca. Ancora non capisco perché.
Senza dubbio più divertente era stato in Tunisia, dove non avevamo mai 
l'opportunità di fare i bisogni nello stesso bagno poiché ci spostavamo ogni giorno, ogni ora, verso una meta che si inaridiva piano piano, dalla confusione di Tunisi al silenzio delle dune, assomigliando sempre più al vento. Ebbene sì, ho fatto la pipì in un hotel nel bel mezzo del deserto, dove le distanze sono così dilatate che anche gli albergatori credono di avere infinito spazio a disposizione per costruire i loro immensi edifici, in cui raccolgono però solamente piccole comitive 
stanche e bruciate dal sole. Gli alberghi del deserto sono bianchi, grandissimi e pieni di scarafaggi; dal letto del deserto al gabinetto del deserto ne ho incontrati tre. Uno l’ho ucciso.
Ne ho viste, di distanze, penso seduta sulla vasca di casa mia.
Oh, ma l'aereo per Città del Messico era così lungo che, scattando in piedi dal mio sedile,prima di trovare un bagno avevo già fatto in tempo a vomitarmi addosso la colazione per via delle turbolenze, che sono l'unico grande pericolo di quando si sorvola il triangolo delle Bermude.
Quella specie di origami di carta con le eliche che mi ha portata a Praga, invece, era talmente piccolo che avevo paura che qualcuno si alzasse per andare al bagno, sbilanciando con conseguenze catastrofiche il peso ben distribuito finché tutti rimanevamo tranquillamente seduti.
Percorro una certa distanza raggiungendo la caffettiera e la mia tazzina colorata. Quant'è bellina. Improvvisamente vengo aggredita da un'ansia sconosciuta 
che mi prende alla bocca dello stomaco e me lo aggroviglia tutto; che è?! Da dove viene questo dolore? Oh, lo so bene. Ci sono distanze che ho creato io fra me e gli altri, e devono essere colmate da un mio sforzo. Non ci è permesso stare qui senza alimentare continuamente il contatto umano.
Ma ora non voglio pensarci e mentre giro per la cucina cercando un cucchiaino mi accorgo di una presenza insperata. È lui, il sole.
Provo una sensazione di libertà nel ricordare così, a caso, che la distanza fra me e lui non saràmai costante perché l'orbita della Terra è ellittica.
Apro la finestra e non mi lascio intimorire dal freddo di queste mattine di gennaio, sorrido, faccio attenzione a non disturbare i ciclamini di mamma che colorano i nostri inverni, accarezzo un petalo rosso con un dito e giungo alla conclusione che forse –ma sì, davvero – fra me e quel “tutti” che mi fa sentire abbracciata vivrà sempre un nodo di distanze, ma è un invito ad avvicinarsi, e quindi mi sporgo un pochino verso la grande palla infuocata come per viaggiare nel volo entusiasta di Fetonte, come per dire al sole che sì esisto sono qui ti amo.






Mitia Chiarin


PETER 
L’ho incontrato in una vallata vicino a Caqui, nel Nordest argentino, durante il 
mio secondo viaggio nel paese dove si può ancora vedere l’infinito. Avrei voluto portarlo con me ma era senza passaporto e mi era impossibile, convincerlo a lasciare quelle terre.
Ammetto che ancora oggi non riesco a pensare a lui senza sentirmi all’improvviso triste. 
Peter in poco più di due ore ha saputo darmi più di tanti altri.
L’ho conosciuto davanti ad una casa, mentre cercavamo le indicazioni per 
raggiungere alcune interessanti pitture rupestri. E’ apparso dietro ad una bambina uscita da una casa ad un piano tra le piante con un porticato sconnesso, e che era corsa a vedere se ci eravamo persi.
Lei ci parlava, placida e sorridente; lui è spuntato alle sue spalle. 
Lo sguardo sereno, l’occhio furbo. Si è avvicinato a noi, e si è piazzato di 
fronte a me in attesa.
“Se volete vedere le pitture rupestri, vi porta Peter”, ci ha detto la ragazzina.
Neanche ho fatto in tempo a chiedere quanto ci sarebbe costato il disturbo.
Lui mi ha guardato, si è girato ed ha cominciato a camminare davanti a noi verso la montagna. Il sentiero passava in mezzo ai rovi, con un percorso tra le pietre su cui si camminava in modo sconnesso. Ma Peter sapeva il fatto suo, anche senza bisogno di cartelli intuiva in che punto si doveva girare a destra rispetto al cespuglio di cafajate o piante dai rami spinosi. Lui non parlava e noi in reverenziale silenzio lo seguivamo lungo la salita in fila indiana. Era lui il nostro capo.
Ogni tanto spariva veloce alla nostra vista. Ma niente paura ; ce lo ritrovavamo davanti all’improvviso, sorridente. Come se la fatica del cammino neanche lo sfiorasse. Oramai eravamo ad un passo dalle rocce, salivamo sfiorandole attenti a non mettere un piede in fallo. 
All’improvviso davanti ad un costone di roccia Peter si è fermato, come 
impietrito. Fissava la parete,estasiato, e quello sguardo ci ha spinto a vedere 
nella direzione in cui voleva lui che guardassimo.
All’inizio non capivamo, pensavamo alla presenza di qualche animale nascosto tra le rocce. Poi lo stupore si è impossessato di noi: le avevamo individuate, stavamo guardando le pitture rupestri. Segni lasciati dagli uomini migliaia di anni fa.
Mi sono seduta su una roccia che sporgeva dal terreno, per guardare meglio e anche riposarmi.
Peter, silenzioso, mi si è seduto vicino. Senza dirci niente, siamo rimasti 
mezz’ora a fissare la parete, guardando i colori, le forme di quelle tracce 
antichissime: una scena di caccia , cacciatori dipinti di rosso mattone ed un 
animale , forse un cervo o un lama, in corsa inseguito dall’uomo che lo voleva 
uccidere.
Colori che si erano fusicon i toni della roccia.
Io guardavo, ma sentivo accanto a me il calore della presenza di Peter. Per lui, parlava il suo respiro, cadenzato come un mantra.
Non so perché l’ho fatto, ma l”ho abbracciato e lui non si è scostato, anzi si è 
fatto più vicino a me. Abbracciandolo potevo sentire distintamente il rumore del suo respiro e poi il battito del cuore. Rilassato, sereno. Mi sono sentita allora un tutt’uno con quelle terre selvagge e sterminate. Avevo ritrovato davanti ad una roccia il senso dell’infinito che cercavo attraversando le Ande.
Non mi sarei più staccata da quell’abbraccio gentile che mi aveva riempito 
l’animo di pace, di quiete.
Ma Peter, forse imbarazzato da tanta improvvisa intimità con una sconosciuta, 
all’improvviso si è rialzato e si è allontanato da me. Riprendendo il cammino 
verso la casa della sua amica, ogni tanto si voltava a vedere se lo seguivamo.
Voleva essere sicuro che non ci trovassimo in difficoltà durante la discesa. E così è stato, tutto è andato per il meglio e la sua piccola amica era ad attenderci, sorridente, per sincerarsi che la gita fosse riuscita per il meglio.
I saluti sono stati una formalità, come spesso accade tra persone che parlano 
lingue diverse. Con Peter non sono servite parole, invece. Il suo sguardo fiero e attento indicava che aveva capito quello che mi era successo, che mi ero sentita parte del suo mondo. E gli bastava. Se ne è andato dopo avermi sorriso e baciato la mano sinistra.
Dopo anni ripenso a lui con affetto e tristezza.
Non era bello, non sarebbe mai stato mio.
Era un cane e solo lui poteva insegnarmi il piacere della pace interiore.




Marta Telatin


UN ALTRO BIGLIETTO…UN ALTRO VIAGGIO…


si accumula
la polvere
sul baule
quanti biglietti…
tanti i viaggi…
l’odore
degli articolidi giornale
accordo
i volti incontrati
in un arpeggio
di tempo tras-corso
so
cosa devo dire
al cancello
so
che qualcuno
non partirà con me
so
che
oltrepassato l’uscio
sarà pesantissimo
chiuderlo
canto
una serenataal mio nuovo viaggio
il calore
del sole
mi ricorda
cosa devo fare
alchimie
di un riflesso
ancora
presente
sono
sempre io
l’artista
di questo dipinto
dai colori interiori










Igor Cannonieri tratto da 'l'orologio americano e altri racconti a grappolo'


Tu nel Veneto ci sei cresciuto e cosa fosse quarant’anni fa – 40, non 400! – te lo ricordi. 
Non solo la povertà, le case senza gabinetto, la gente che chiamata rispondeva «Comandi!»,
 il lavorante che si offriva di vangare l’orto per un fiasco di vino (che non dovevi avere l’imprudenza 
di consegnargli prima che avesse finito il lavoro!). Non solo questo. Ti ricordi che i bambini della tua età 
andavano nel freddo dell’autunno, col parroco e la croce, a benedire le campagne. Le campagne, allora, 
avevano bisogno nientemeno che della benedizione. Oggi, quand’è domenica e la benedizione la prendono 
più solo quattro vecchine che arrivano fino alla chiesa, tu vai in campagna per fare quella cosa bella e salutare 
che è “stare all’aria aperta”. Esci di casa con pantaloni in lycra, maglia in fibra traspirante, scarpe in goretex con suola 
shock-absorber e l’ottimismo di essere in quella provincia che sui cartelloni è detto “… se la vedi ti innamori”. 
Altre volte hai avuto la tentazione di riflettere su quello slogan che ti suona un po’ presuntuoso e su quella ipotetica soprattutto: “se la vedi”. 
Poiché il cartello è nella provincia medesima, non è certo che chi lo legge stia anche vedendo la provincia? O forse si allude ad un vedere panoptico, 
per cui bisognerebbe vederla tutta per innamorarsi? E chi potrebbe? Forse si vuol suggerire che chi l’ha già vista si è innamorato e per estensione la 
sua esperienza è riferibile a tutti (ma giusto qui ci starebbe un po’ di presunzione, no?). O magari c’è un sotto testo, rivolto a quelli che se 
ne stanno andando, col quale si dà un consiglio a mo’ di profilassi: guarda che, adesso che te ne vai, se senti un dolore al petto, non è infarto ma
 la nostalgia di quello che, forse non te ne sei accorto, ti ha conquistato.


Comunque sia, ti lasci dietro questi pensieri e cominci a sgambettare. Fuori di casa giri a destra, attorno al cantiere della palazzina in costruzione. 
Tra poco c’è campagna. Attraversi la strada, costeggi un deposito di materiali edili, passi vicino alla villetta dei Bigodin, poi prendi la stradina verso i campi. 
C’è un allevamento di conigli, un capannone – ma come faranno ad arrivarci i camion? – un centro per anziani, la trattoria “da Nane”, un campo incolto, 
uno a granoturco, una lunga lunga siepe. Corri a fianco della siepe. È un tratto interminabile, quanto ciascuno dei quattro lati della cava che nasconde. 
Più in là c’è una casa. Un’altra, riattata. La successiva ancora sembra la testa di un bruco: è attaccata a uno stabilimento che cerca di nascondersi dietro di lei. 
Più corri veloce e più lo sguardo cade nella frenesia: un fosso, un maneggio, una fonderia, un pollaio, una bifamiliare, una carrozzeria, 
una vigna, delle ruspe in un piazzale di ghiaia, un pilone dell’alta tensione, una stamberga con la parabola sulla terrazza (lì ci stanno i cinesi, o gli africani). 
Quando torni a casa con centocinquanta battiti al minuto – hai anche il cardiofrequenzimetro! – non sai se sia per la corsa o per lo spavento. 
“Se la vedi…”? Forse sarebbe meglio “Se non te la ricordi….”.








Carlo Callegari tratto da 'Che Dio ti aiuti bambola'


“E' una Sulky” risposi.
“Lo so anch'io che è una Sulky. Solo pensavo che ormai si fossero tutte estinte.”
“A quanto sembra qualcuna è sopravvissuta. Comunque, amico mio, quello è il nostro mezzo di trasporto
per questa sera.”
“Cosa? Mi stai prendendo per il culo?” mi chiese sbalordito.
“No, credimi. E' la persona che stavamo aspettando.”
“E noi dovremmo andare dai fratelli Makarovic con quel triciclo color merda?”
“A quanto pare sì.”
“Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Che razza di professionisti siete?”
“Abbiamo un piano...”, azzardai.
“Me lo auguro. E poi, come ci stiamo in tre in una Sulky?”
“Non siamo proprio in tre. Direi piuttosto in due e mezzo.”
“Due e mezzo? E chi cazzo è il tuo socio? Un ragazzino di dodici anni o un uomo senza gambe?”
“Nessuna delle due, anche se la statura è più da uno di dieci.”
Silvano non aggiunse altro ed aspettò in silenzio che il catorcio si fermasse proprio affianco a noi.
Qualche secondo dopo la porta si aprì e con un balzo ed un sorriso beffardo, scese Tony.
“Ciao, pivelli!”
Io e Silvano rimanemmo entrambi a bocca aperta. Lui per lo stupore di rivedere il nano dopo molti anni,
io per come si era conciato.
Tony aprì le braccia radioso in direzione del Boa.
“Beh, Silvano. Non saluti il tuo amico Tony?”
“Beata Vergine. Tony! Amico mio, dopo tanti anni. Come fai a conoscere Carlito?”
Stretto nella morsa di quell'abbraccio infinito, il nano si spazientì subito.
“Ok, ok. Ma adesso smettila di abbracciarmi bestione. Non siamo mica due froci, almeno non io. Dai
mollami, ho una reputazione da difendere.”
Le piccole mani di
Tony cominciarono a pugnare la schiena del Boa fino a quando lui non mollò la presa.
“Ma cosa ci fai qui? Era dai tempi delle messe assieme che non ti vedevo!”
Adesso basta,” sbottò il nano mettendo mano al calcio del cannone cromato. “Non è il momento delle
lacrime, dei pompini e dei vecchi tempi. Saliamo in macchina e andiamo a fare il nostro lavoro.”
“Macchina?” lo stuzzicai io. “Non vedo nessuna macchina.”
“Maledetti pivelli ritardati. Volevate andare a fare una strage con una macchina presa a noleggio. Cosa
avreste raccontato riconsegnandola piena di buchi di pistola? Che non vi eravate accorti che qualcuno
vi aveva sparato? Invece nessuno può immaginare che la morte arrivi in Sulky! E adesso andiamo a
distribuire un po' di sani confetti di piombo.”
Il trabiccolo color merda di cane aveva la guida centrale a manubrio e, visto che io e Silvano occupavamo
da soli l'intera lunghezza della panca del triciclo, il nano per guidare fu costretto a salire in braccio nostro.
“E fatemi un po' di spazio, razza di impiastri! Maledetti pivelli!”
Il motore dopo qualche rantolo si riavviò ed dopo aver ingranato la prima il Sulky fece uno stanco balzo
in avanti, quindí con fatica, molta fatica, si mosse.
Affrontare il cavalcavia della stazione fu quasi un'impresa. Fortuna volle che trovammo il semaforo verde
in Piazza Mazzini. Quello ci consentì di lanciarci ad affrontare la salita a quasi cinquanta all'ora. A metà
strada avevamo già perso quasi la totalità della spinta e, verso la cima, ci ritrovammo quasi immobili. Il
nano scalò in prima ed affrontò gli ultimi metri con il motore fuori giri. L'interno dell'abitacolo sembrava
la sala macchine del Titanic. Finalmente cominciò la discesa ed il nano ingranò la terza, cioè la marcia
più alta. Prima scendemmo per inerzia, poi guadagnammo velocità. Entrammo nella curva che porta al
quartiere Arcella come una meteora. Le piccole ruote del sulky non riuscirono a tenere la strada, così, un
po' per volta andammo alla deriva verso sinistra, invadendo la carreggiata opposta. Quando ci ritrovammo
quasi a baciare due anziani alla guida di una Panda che proveniva dalla parte opposta alla nostra, Tony
non poté fare altro che allargare ancora la traiettoria, finendo quasi addosso al marciapiede.
Davanti a noi ci ritrovammo parecchie persone ferme in coda ad aspettare di entrare al cinema Astra per
lo spettacolo di mezzanotte. Erano talmente tante che molte di loro erano state costrette a stare giù dal
marciapiede. In un attimo si volatilizzarono tutte fra urla di terrore e bestemmie decisamente colorite.
Riuscii ad intravvedere il mezzo busto di una ragazza sfilare a pochi centimetri dal mio finestrino. Aveva
gli occhi grandi come due piattini da caffè e la bocca simile a quella del celebre urlo di Munch. Fu solo un
breve istante, poi non vidi altro.
Lentamente riuscimmo a riguadagnare la corsia di destra.
“Mi dispiace per i tuoi pantaloni Carlito,” disse il Boa con voce simile ad un primo soprano della Scala di
Milano. “Prima erano fumo di Londra, ora sono merda di Padova. Temo che li dovrai buttare.”


VIAGGIARE tautogramma di Annalisa Bruni 


Vedete, viaggio. Voglio vivere viaggiando. Vagare. Vedere villaggi, vetuste vestigia, verdi vivai. Visitare vernissage! 
Vicissitudini, vibrazioni, vetture, vetrate, vestiboli, verzure, vetrine. Vulcanica viandante, volgare venturiera, 
volo verso volubili voluttà, volteggiando. Vizio vivificante, vocazionale. Venezia, Vienna, Versailles, Venezuela, Vigodarzere, Valladolid, Vercelli, Volterra. 
Verrei volentieri. Vossignorie vociferate: velleità voluttuarie? Vistosa verità? Visibile virilismo? Vezzo vergognoso? Volontarismo vulnerabile? 
Voglia vana? Villeggiatura virtuosa? 
Vedete voi.






A BRACCIA APERTE Barbara Prevedello


Risveglio
Quale giornata òggi? Troverò una rispósta? Finalmente l'incanto si 
compirà? Incontrerò la luce?
Compirò imprese meravigliose? Sbaraglierò un esercito di nemici? 
Risplenderò in mezzo a folle che-mi ascoltano attonite? Mi lancerò sulla 
strada salvando la vita di un bimbo?
Intanto, devo (indifferente)  bére il caffé, far colazióne e lavarmi i dènti.
Un attimo di unico, perfètto silènzio attravèrsa la mia cucina. Non è 
ancóra mattina, ma non è buio; il caffè ha un buon sapóre; la sigarétta 
mi accompagna in un silènzio scandito sólo dal mio grande orològio, che 
è in casa mia da vént'anni.
Tutto è così familiare e, per un attimo, perfètto. Perfètto perché, per un 
attimo, basta. 
Attèndo
da anni, mesi, giórni e minuti.......
attèndo
il miracolo.
Finalménte,  l'attimo perfétto.
L'apoteòsi,  la discésa da un vólo abbagliante?
No, sólo una tazza di caffè
Poi, uscireLuce del mattino
carica di azzurro
pòche nuvole
carézze bianche
Solo qualche attimo prima di salire sull'autobus. Osservo.
Alla fermata dell'autobus,
aspettiamo tutti
di venire raccolti.
Un ubriaco litiga con la cabina telefonica
una madre traversa veloce la strada,
le macchine non aspettano,
nei loro volti di solitudine.
Una ragazza,
poggiata a un palo,
ascolta la sua musica.
Attende,
ma non è qui.
Un vecchio brontola
di cose che non vanno
e una donna con il carrello delle spese
si siede
in un momento di quiete.
Strada,
fiume di automobili,
di occhi che non  guardano,
di menti lontane.
Riordino la borsa
nell'attesa
di un incontro. 
Un incontro...quale incontro?
Forse, un tèmpo, in una infinita lontananza
non lame di coltello né catene di desiderio
erano fra noi
camminavamo fianco a fianco
e identica era la meta
quale fulmine separò il nostro passo
è impossibile a dirlo
ma, a volte, uomo
sento ancora  la tua antica presènza
e , così, la desidero
Il sogno svanisce. E poi,  il viaggio di sèmpre.
Curve, rettilinei
comuni passaggi, ogni giorno
ogni giorno,
curve, rettilinei, rettilinei, curve
percorso sempre uguale
mai un'altra direzione.
Per fortuna, il cielo.