giovedì 3 novembre 2011

I Testi del 27 Ottobre
































VIENNA  di Elisabetta Rosadi      
25 febbraio
La consapevolezza nello scegliere il treno come mezzo per viaggiare è che il tuo viaggio avrà un impatto inquinante molto più basso rispetto a un aereo. Contribuirai a migliorare il mondo. Scegliere una cuccetta in scompartimento per sole donne significa che avrai sicuramente delle compagne interessanti, nel bene o nel male.
La mia compagna di viaggio, oggi, è un’australiana che legge “Revenge of the middle age woman”. Ha una valigia un po’ più grande della mia, ma non troppo, considerato il fatto che viene dall’Australia. Siamo vestite allo stesso modo: jeans, maglietta, maglia pesante, calzettoni e scarpe comode.
E’ una radiologa in vacanza, è stata con amici a Belgrado, a Sarajevo, a Venezia, a Cortina a sciare, ora prosegue da sola per Vienna e Bratislava. Fra qualche giorno andrà a Dubai: lei sì, che viaggia davvero.
26 febbraio
Sono quasi le 7 del mattino, ho dormito bene, temperatura perfetta e buona 
insonorizzazione nel treno austriaco.
Alzo la tendina del finestrino: fuori c’è nebbia, come se fossimo ancora a Venezia, ma si vede la campagna e l’inizio del bosco, la legna accatastata in modo ordinato, nei pressi dei casolari.
Anche la mia compagna di viaggio si è svegliata, ci salutiamo e guardiamo fuori. 
Poi il cielo si apre, diventa azzurro, il sole indora le case di Vienna. Alle 8 e trenta scendo dal treno, dopo aver salutato l’australiana. Non sappiamo neppure i nostri nomi, ma che importanza ha. Ha un bel sorriso.
Mi avvio decisa fuori della Westbanhof e mi accorgo che non so dove andare. Studio la mappa: devo imboccare la MariahilferStrasse. Pongo domande nel mio tedesco creativo e una signora bionda me la indica. Facilissimo, ho già capito com’è questa città. La giornata è favolosa, il cielo è limpido, il sole è caldo, siamo a 12 gradi.
Peccato che io indossi montone, maglione e calzettoni di lana; trascinando il mio piccolo trolley per la strasse più prestigiosa della città. Chi se ne frega.
A Vienna la gente non sembra occupata, o che debba lavorare: sembra sempre 
passeggiare. Telefonano. Chiacchierano. Trascorrono le giornate sulle panchine dei loro cento parchi, senza ombra di cartacce o mozziconi. Sono tutti vestiti più leggeri di me, qualcuno anche in maniche corte. Per fortuna non mi sono portata i moon boot, come avevo pensato di fare.
Le auto viaggiano lentamente e si fermano per far attraversare il pedone fermo sul ciglio della strada. Se il segnale dei pedoni è rosso, nessuno attraversa, anche se la strada è priva di auto.
Ho acquistato degli affettati tipici e del pane scuro con cereali bio, una birra austriaca, e una spazzola per capelli, perché ho scoperto di essermela dimenticata, infatti, stamattina, scesa dal treno, sembravo un istrice. La commessa della profumeria mi ha regalato dei campioni di profumo: forse ne avevo bisogno, dopo aver camminato a lungo con stivaloni e montone, sotto il sole?
27 febbraio
Frustuck sublime.
Credo sia impossibile mangiare tutto questo ben di dio di prima mattina.
Soffici brioche, tortine e pane ai mille gusti, marmellate, mieli, cioccolata, burri, patè, succhi, yogurth, fiocchi di cereali, delizie salate, salumi, formaggi, salse, leccornie calde,frutta fresca: papaia, meloni, fragole.
Primo pensiero del giorno: che bello volersi bene! 
Come previsto dal meteo austriaco, è arrivato un gran freddo, per fortuna ho il montone!
Al Belvedere Inferiore, stupenda mostra di Kokotschka, visioni dal meraviglioso odore di colori a olio. Fuori, i giardini del Belvedere in inverno sono terribilmente tristi e le fontane vuote. Nuvoloni compatti e gelati vanno via veloci. 
Al Belvedere Superiore, è fantastica l’esposizione dei pittori viennesi.
Proseguo a piedi fino al Danubio: sembra un canale dalle sponde di cemento, l’acqua è scura. Osservo a lungo, ma non riesco a percepire alcuna sfumatura blu.
Torno indietro fino a StephansDom, guardo le vetrine, mi fermo al caffè Sacher e faccio qualche acquisto.
28 febbraio.
Ho fatto un brutto sogno. Mi volevano operare, infilarmi una sonda da sotto il braccio, dentro il corpo. Avevo paura. Mi sono svegliata,e ho pensato a mio figlio. 
Per fortuna ho deciso di regalarmi questo viaggio a Vienna: viaggiare rilassa, apre la mente, ti dona un sacco di belle cose e i bei doni non si buttano mai via. 
Mi sono fatta un regalo di compleanno: ne compio 49. Difficile pronunciarli, anche solo pensarli. Sono tanti, una enormità di anni. Ho voluto essere qui, oggi, solo per fermare questo attimo e poterlo raccontare.






Anita Menegozzo 
VIAGGIO
Che treno salperà e per quale cielo
a te che il viaggio sposta solo l'aria
che soffia giusto dietro la tua nuca
e non contento e ossesso ti racconti
...Io vidi , io presi io piansi 
io tanto fortemente mi commossi
per primo io fra tutti me ne accorsi...
kilometri a migliaia e non una parola
che parli un poco d'altro che te stesso 
Quel te che tanto dici di cercare
che suona così bene a dirsi in giro
te stesso quello vero, che a stento riconosci
non fa che ribussare alla tua spalla
e tu non te ne accorgi 
o peggio forse fingiTe stesso se lo cerchi, dammi retta 
ti esce dolcemente da quei tagli 
che naufrago tu senti alle ginocchia
per le conchiglie sparse sulla riva
ti esplode forte dentro e ti  stupisce
e affonda tra le risa e nei singhiozzi 
le unghie fino ai denti alla battigia






Cristiano Prakash Dorigo tratto da Supermarket Nordest


Mia madre insisteva con forza. Più era debole, fragile, sola, più s’impuntava e insisteva. Lo sai che tuo cugino è già andato, che se la cava bene, diceva sempre. E io rispondevo che era vero, ma che non potevoandare così, senza sapere cos’avrebbe fatto lei, da sola, senza appoggi, senza un uomo che la proteggesse.
E lei diceva che non dovevo preoccuparmi, che i parenti le sarebbero stati vicino. Vai, è il tuo viaggio: ti aspetta! Nel nostro quartiere abitava uno che prestava i soldi: non si parte per un viaggio,senza; e lui te li prestava. Bisognava però pensarci bene: guai a non restituirglieli, e con gli interessi: avrebbe perseguitato tutta la famiglia,nessuno escluso, senza pietà. Per arrivare al punto ics bisognava partire almeno un giorno prima. Mia madre mi ha preparato il bagaglio. Abbiamo preso uno zaino, perché è grande come una valigia ed è più comodo da portare in viaggio. L’ho abbracciata forte, le ho giurato che l’avrei chiamata appena arrivato; ho nascosto il mio viso al suo sguardo perché un uomo non si fa vedere quando piange. Lei invece
non si è nascosta e mi ha dedicata la più bella poesia d’amore, coi suoi occhi. Volevo chiederle di dirmi la verità, sapere dove fosse mio padre, perché era sparito, ma ho taciuto: le avevo promesso di non parlarne più, e io mantengo le promesse. Il suo ultimo gesto è stato una carezza delicata sui miei capelli neri come la notte, come amava ripetere lei quando ero bambino. Sono partito. Ho attraversato la pianura arida, il deserto, con un pullman vecchio e rumoroso, così pieno di gente che quasi mancava l’aria. Eravamo tutti
sudati,stufi, tramortiti dalla polvere, dalle buche, dal caldo insopportabile. Alla frontiera bisognava mettere un po’ di soldi dentro il documento e si passava senza problemi. A me è andata bene; a molte persone, soprattutto alle donne,invece, è andata male. Le hanno lasciate lì, al confine, senza documenti, senza bagaglio, senza più niente. Qualcuna invece, è stata portata via, dove si dice che, se gli va bene, escono sfigurate, incinte, ma vive. Se una di queste fosse mia sorella, mia cugina o mia madre cosa farei? Non mi sono risposto: ho solo chiuso gli occhi e pregato che certi brutti pensieri non mi toccassero più. Quando sono arrivato in centro città, sono andato al mercato, mi sono mischiato alla folla, ho camminato tutto il
giorno da un banchetto all’altro, cercando di non farmi notare e tenendo sempre stretto lo zaino. Quando ha iniziato a calare il sole, aiutato dall’odore di salso, mi sono incamminato verso il mare. Non avevo più molto tempo, non potevo permettermi di sbagliare posizione, né parlare con nessuno: mi avevano avvisato che qui è pieno di spie della polizia che, in cambio di poco, o perché costretti, denunciano chiunque. Ho raggiunto la spiaggia, invisibile come tutti quelli come me. Ci siamo tutti nascosti tra gli alberi in attesa del
segnale. La spiaggia era immobile, il mare era un tappeto nero, il cielo, dapprima luminoso di stelle,si è via via incupito fino a sparire nel suo stesso buio. Il rumore delle onde si faceva sempre più rabbioso, il vento
sparava la sabbia con violenza,l’elettricità dell’aria s’accoppiava alla nostra tensione. All’improvviso il segnale. Dei colpi di luce che ondeggiavano al largo. All’improvviso siamo usciti di corsa, a decine: visti dall’alto saremmo sembrati formiche. Abbiamo raggiunto il peschereccio superando onde sempre più violente. Una volta saliti a bordo, tutti seduti sul ponte, gli spruzzi del mare, il gonfiarsi del vento,la pioggia che iniziava a scendere violenta. Il mio ultimo pensiero a te,madre, che mi proteggi col tuo amore che, lo giuro, ricambierò coi fatti: coi soldi per la casa e per il debito. Tornerò per rimanere: mi sposerò e farò figli che saranno nipoti felici. Sperando passi in fretta questa notte di tempesta. Era l’agosto del 2008 e dei 78
eritrei imbarcati, ne arrivarono 5: gli altri 73,annegati.




5 METRI IN LINEA D'ARIA
di Maddalena Lotter
Tra le sette e le otto della mattina l'unico senso completamente funzionante è l'udito.
I primi suoni sono le voci arrochite dei famigliari mentre preparano la colazione in cucina e si scambiano le frasi di inizio giornata.
Va bene, adesso mi alzo.
Calcolo la distanza tra la mia posizione attuale e il bagno: sono cinque metri in linea d'aria,non di più. 
Certo, bisogna tener conto degli spigoli nelle camere e dei possibili ostacoli da evitare durante il percorso, 
ciabatte, libri impilati, ma non sono più di cinque metri in linea d'aria.
Mi volto a pancia in su e penso che si possono fare un sacco di cose in cinque metri: Glauco e Diomede hanno discusso 
sulla loro stirpe a meno di tre metri di distanza, mentre attorno a loro si decideva il destino degli Achei e dei Troiani.
Intraprendendo uno sforzo che a me pare sovrumano, mi alzo e infilo le pantofole.
Raggiungo il gabinetto pensando lungo tutto il tragitto al fatto che sto 
percorrendo all'incirca cinque metri in linea d'aria, e comincio a percepire attorno a me una spazialità definita, un volume di cui prima non mi ero accorta.
Mi lavo il viso e riconosco la snervante quotidianità di alcuni gesti, di quelle piccole esigenze.
Mi siedo sul bordo della vasca, quasi affranta, e comincio a calcolare le distanze di alcuni bagni che ho frequentato in giro per il mondo partendo da una stanza da letto.
L'albergo di Stoccolma salta subito alla mente: due anni fa lui e io siamo andati in Svezia,
scegliendo la meta a caso sul mappamondo; ricordo che la porta del bagno era praticamente a ridosso del letto matrimoniale. 
La stanza era una business (avevamo prenotato una standard ma per un errore fortunato eravamo stati collocati in una camera migliore), 
all'ultimo piano. Più aNordvai, più il cielo ti cade sulla testa.
Se invece tornavo virtualmente tra i corridoi logori e puzzolenti di quell'ostello di Londra mi tornava il dolore alla pianta dei piedi: per raggiungere
 il primo cesso dello stabile dovevi scammellare lungo un corridoio su cui pendevano luci al neon bluastre, per una rampa di scale
gelide anti-incendio e per altri sei o sette metri in linea d'aria. Quando dovevo andare a fare la pipì in quell'ostello londinese mi venivano 
sempre i crampi, perché svegliarsi in piena notte e, raggrinziti dal sonno, sgattaiolare sulla moquette (gli inglesi hanno un rapporto morboso con la moquette) e poi su quelle scale fredde, temendo di incontrare qualche losco individuo a ogni incrocio di corridoi è un'esperienza che ti mette addosso una certa fretta, e i piedi, stanchi dalle giornate passate tra British Museum e vari posti il cui nome finisce con “- Gallery”, non avevano più voglia di correre.
Ma il campeggio sul lago di Bolsena batte tutte le distanze in linea d'aria: nel giardino di casa di alcuni conoscenti che ci hanno ospitati, il mio migliore 
amico e io abbiamo piantato una tenda(che è diventata in meno di due ore un'appendice del mio caos casalingo) e prima di arrivare al bagno, che 
si trovava dentro la casa, bisognava percorrere non solo una quindicina di metri de facto, tra fili d'erba rugiadosi e formichine moleste, ma era necessario anche svegliare tutti con una scampanellata notturna. Pertanto, quando scappava di notte bisognava tenersela, o se volevi c'era il lago.
Una distanza frustrante è stata senza dubbio quella sul traghetto per raggiungere la Grecia, una delle prime volte in cui ci sono montata sopra, 
senza sapere a cosa andassi incontro; le cabine di quella nave sono talmente strette che se non hai mai sofferto di claustrofobia quello è il momento buono per cominciare a farlo. 
Accoccolata in una di quelle cuccette, a parlare di cose da sedicenni, mi sembrava che anche i miei organi interni si contraessero su se stessi.
Il problema della cabina era che, se qualcuno di noi quattro usava il bagno, quello era talmente vicino e i suoi muri talmente sottili che gli altri presenti sentivano tutti i rumori, per cui non eracosì facile abbandonarsi al piacere dell'evacuazione dei rifiuti organici. Non per una ragazzina di
sedici anni, che per sentirsi idonea alla vita deve fingere di non fare mai la cacca. Ancora non capisco perché.
Senza dubbio più divertente era stato in Tunisia, dove non avevamo mai 
l'opportunità di fare i bisogni nello stesso bagno poiché ci spostavamo ogni giorno, ogni ora, verso una meta che si inaridiva piano piano, dalla confusione di Tunisi al silenzio delle dune, assomigliando sempre più al vento. Ebbene sì, ho fatto la pipì in un hotel nel bel mezzo del deserto, dove le distanze sono così dilatate che anche gli albergatori credono di avere infinito spazio a disposizione per costruire i loro immensi edifici, in cui raccolgono però solamente piccole comitive 
stanche e bruciate dal sole. Gli alberghi del deserto sono bianchi, grandissimi e pieni di scarafaggi; dal letto del deserto al gabinetto del deserto ne ho incontrati tre. Uno l’ho ucciso.
Ne ho viste, di distanze, penso seduta sulla vasca di casa mia.
Oh, ma l'aereo per Città del Messico era così lungo che, scattando in piedi dal mio sedile,prima di trovare un bagno avevo già fatto in tempo a vomitarmi addosso la colazione per via delle turbolenze, che sono l'unico grande pericolo di quando si sorvola il triangolo delle Bermude.
Quella specie di origami di carta con le eliche che mi ha portata a Praga, invece, era talmente piccolo che avevo paura che qualcuno si alzasse per andare al bagno, sbilanciando con conseguenze catastrofiche il peso ben distribuito finché tutti rimanevamo tranquillamente seduti.
Percorro una certa distanza raggiungendo la caffettiera e la mia tazzina colorata. Quant'è bellina. Improvvisamente vengo aggredita da un'ansia sconosciuta 
che mi prende alla bocca dello stomaco e me lo aggroviglia tutto; che è?! Da dove viene questo dolore? Oh, lo so bene. Ci sono distanze che ho creato io fra me e gli altri, e devono essere colmate da un mio sforzo. Non ci è permesso stare qui senza alimentare continuamente il contatto umano.
Ma ora non voglio pensarci e mentre giro per la cucina cercando un cucchiaino mi accorgo di una presenza insperata. È lui, il sole.
Provo una sensazione di libertà nel ricordare così, a caso, che la distanza fra me e lui non saràmai costante perché l'orbita della Terra è ellittica.
Apro la finestra e non mi lascio intimorire dal freddo di queste mattine di gennaio, sorrido, faccio attenzione a non disturbare i ciclamini di mamma che colorano i nostri inverni, accarezzo un petalo rosso con un dito e giungo alla conclusione che forse –ma sì, davvero – fra me e quel “tutti” che mi fa sentire abbracciata vivrà sempre un nodo di distanze, ma è un invito ad avvicinarsi, e quindi mi sporgo un pochino verso la grande palla infuocata come per viaggiare nel volo entusiasta di Fetonte, come per dire al sole che sì esisto sono qui ti amo.






Mitia Chiarin


PETER 
L’ho incontrato in una vallata vicino a Caqui, nel Nordest argentino, durante il 
mio secondo viaggio nel paese dove si può ancora vedere l’infinito. Avrei voluto portarlo con me ma era senza passaporto e mi era impossibile, convincerlo a lasciare quelle terre.
Ammetto che ancora oggi non riesco a pensare a lui senza sentirmi all’improvviso triste. 
Peter in poco più di due ore ha saputo darmi più di tanti altri.
L’ho conosciuto davanti ad una casa, mentre cercavamo le indicazioni per 
raggiungere alcune interessanti pitture rupestri. E’ apparso dietro ad una bambina uscita da una casa ad un piano tra le piante con un porticato sconnesso, e che era corsa a vedere se ci eravamo persi.
Lei ci parlava, placida e sorridente; lui è spuntato alle sue spalle. 
Lo sguardo sereno, l’occhio furbo. Si è avvicinato a noi, e si è piazzato di 
fronte a me in attesa.
“Se volete vedere le pitture rupestri, vi porta Peter”, ci ha detto la ragazzina.
Neanche ho fatto in tempo a chiedere quanto ci sarebbe costato il disturbo.
Lui mi ha guardato, si è girato ed ha cominciato a camminare davanti a noi verso la montagna. Il sentiero passava in mezzo ai rovi, con un percorso tra le pietre su cui si camminava in modo sconnesso. Ma Peter sapeva il fatto suo, anche senza bisogno di cartelli intuiva in che punto si doveva girare a destra rispetto al cespuglio di cafajate o piante dai rami spinosi. Lui non parlava e noi in reverenziale silenzio lo seguivamo lungo la salita in fila indiana. Era lui il nostro capo.
Ogni tanto spariva veloce alla nostra vista. Ma niente paura ; ce lo ritrovavamo davanti all’improvviso, sorridente. Come se la fatica del cammino neanche lo sfiorasse. Oramai eravamo ad un passo dalle rocce, salivamo sfiorandole attenti a non mettere un piede in fallo. 
All’improvviso davanti ad un costone di roccia Peter si è fermato, come 
impietrito. Fissava la parete,estasiato, e quello sguardo ci ha spinto a vedere 
nella direzione in cui voleva lui che guardassimo.
All’inizio non capivamo, pensavamo alla presenza di qualche animale nascosto tra le rocce. Poi lo stupore si è impossessato di noi: le avevamo individuate, stavamo guardando le pitture rupestri. Segni lasciati dagli uomini migliaia di anni fa.
Mi sono seduta su una roccia che sporgeva dal terreno, per guardare meglio e anche riposarmi.
Peter, silenzioso, mi si è seduto vicino. Senza dirci niente, siamo rimasti 
mezz’ora a fissare la parete, guardando i colori, le forme di quelle tracce 
antichissime: una scena di caccia , cacciatori dipinti di rosso mattone ed un 
animale , forse un cervo o un lama, in corsa inseguito dall’uomo che lo voleva 
uccidere.
Colori che si erano fusicon i toni della roccia.
Io guardavo, ma sentivo accanto a me il calore della presenza di Peter. Per lui, parlava il suo respiro, cadenzato come un mantra.
Non so perché l’ho fatto, ma l”ho abbracciato e lui non si è scostato, anzi si è 
fatto più vicino a me. Abbracciandolo potevo sentire distintamente il rumore del suo respiro e poi il battito del cuore. Rilassato, sereno. Mi sono sentita allora un tutt’uno con quelle terre selvagge e sterminate. Avevo ritrovato davanti ad una roccia il senso dell’infinito che cercavo attraversando le Ande.
Non mi sarei più staccata da quell’abbraccio gentile che mi aveva riempito 
l’animo di pace, di quiete.
Ma Peter, forse imbarazzato da tanta improvvisa intimità con una sconosciuta, 
all’improvviso si è rialzato e si è allontanato da me. Riprendendo il cammino 
verso la casa della sua amica, ogni tanto si voltava a vedere se lo seguivamo.
Voleva essere sicuro che non ci trovassimo in difficoltà durante la discesa. E così è stato, tutto è andato per il meglio e la sua piccola amica era ad attenderci, sorridente, per sincerarsi che la gita fosse riuscita per il meglio.
I saluti sono stati una formalità, come spesso accade tra persone che parlano 
lingue diverse. Con Peter non sono servite parole, invece. Il suo sguardo fiero e attento indicava che aveva capito quello che mi era successo, che mi ero sentita parte del suo mondo. E gli bastava. Se ne è andato dopo avermi sorriso e baciato la mano sinistra.
Dopo anni ripenso a lui con affetto e tristezza.
Non era bello, non sarebbe mai stato mio.
Era un cane e solo lui poteva insegnarmi il piacere della pace interiore.




Marta Telatin


UN ALTRO BIGLIETTO…UN ALTRO VIAGGIO…


si accumula
la polvere
sul baule
quanti biglietti…
tanti i viaggi…
l’odore
degli articolidi giornale
accordo
i volti incontrati
in un arpeggio
di tempo tras-corso
so
cosa devo dire
al cancello
so
che qualcuno
non partirà con me
so
che
oltrepassato l’uscio
sarà pesantissimo
chiuderlo
canto
una serenataal mio nuovo viaggio
il calore
del sole
mi ricorda
cosa devo fare
alchimie
di un riflesso
ancora
presente
sono
sempre io
l’artista
di questo dipinto
dai colori interiori










Igor Cannonieri tratto da 'l'orologio americano e altri racconti a grappolo'


Tu nel Veneto ci sei cresciuto e cosa fosse quarant’anni fa – 40, non 400! – te lo ricordi. 
Non solo la povertà, le case senza gabinetto, la gente che chiamata rispondeva «Comandi!»,
 il lavorante che si offriva di vangare l’orto per un fiasco di vino (che non dovevi avere l’imprudenza 
di consegnargli prima che avesse finito il lavoro!). Non solo questo. Ti ricordi che i bambini della tua età 
andavano nel freddo dell’autunno, col parroco e la croce, a benedire le campagne. Le campagne, allora, 
avevano bisogno nientemeno che della benedizione. Oggi, quand’è domenica e la benedizione la prendono 
più solo quattro vecchine che arrivano fino alla chiesa, tu vai in campagna per fare quella cosa bella e salutare 
che è “stare all’aria aperta”. Esci di casa con pantaloni in lycra, maglia in fibra traspirante, scarpe in goretex con suola 
shock-absorber e l’ottimismo di essere in quella provincia che sui cartelloni è detto “… se la vedi ti innamori”. 
Altre volte hai avuto la tentazione di riflettere su quello slogan che ti suona un po’ presuntuoso e su quella ipotetica soprattutto: “se la vedi”. 
Poiché il cartello è nella provincia medesima, non è certo che chi lo legge stia anche vedendo la provincia? O forse si allude ad un vedere panoptico, 
per cui bisognerebbe vederla tutta per innamorarsi? E chi potrebbe? Forse si vuol suggerire che chi l’ha già vista si è innamorato e per estensione la 
sua esperienza è riferibile a tutti (ma giusto qui ci starebbe un po’ di presunzione, no?). O magari c’è un sotto testo, rivolto a quelli che se 
ne stanno andando, col quale si dà un consiglio a mo’ di profilassi: guarda che, adesso che te ne vai, se senti un dolore al petto, non è infarto ma
 la nostalgia di quello che, forse non te ne sei accorto, ti ha conquistato.


Comunque sia, ti lasci dietro questi pensieri e cominci a sgambettare. Fuori di casa giri a destra, attorno al cantiere della palazzina in costruzione. 
Tra poco c’è campagna. Attraversi la strada, costeggi un deposito di materiali edili, passi vicino alla villetta dei Bigodin, poi prendi la stradina verso i campi. 
C’è un allevamento di conigli, un capannone – ma come faranno ad arrivarci i camion? – un centro per anziani, la trattoria “da Nane”, un campo incolto, 
uno a granoturco, una lunga lunga siepe. Corri a fianco della siepe. È un tratto interminabile, quanto ciascuno dei quattro lati della cava che nasconde. 
Più in là c’è una casa. Un’altra, riattata. La successiva ancora sembra la testa di un bruco: è attaccata a uno stabilimento che cerca di nascondersi dietro di lei. 
Più corri veloce e più lo sguardo cade nella frenesia: un fosso, un maneggio, una fonderia, un pollaio, una bifamiliare, una carrozzeria, 
una vigna, delle ruspe in un piazzale di ghiaia, un pilone dell’alta tensione, una stamberga con la parabola sulla terrazza (lì ci stanno i cinesi, o gli africani). 
Quando torni a casa con centocinquanta battiti al minuto – hai anche il cardiofrequenzimetro! – non sai se sia per la corsa o per lo spavento. 
“Se la vedi…”? Forse sarebbe meglio “Se non te la ricordi….”.








Carlo Callegari tratto da 'Che Dio ti aiuti bambola'


“E' una Sulky” risposi.
“Lo so anch'io che è una Sulky. Solo pensavo che ormai si fossero tutte estinte.”
“A quanto sembra qualcuna è sopravvissuta. Comunque, amico mio, quello è il nostro mezzo di trasporto
per questa sera.”
“Cosa? Mi stai prendendo per il culo?” mi chiese sbalordito.
“No, credimi. E' la persona che stavamo aspettando.”
“E noi dovremmo andare dai fratelli Makarovic con quel triciclo color merda?”
“A quanto pare sì.”
“Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Che razza di professionisti siete?”
“Abbiamo un piano...”, azzardai.
“Me lo auguro. E poi, come ci stiamo in tre in una Sulky?”
“Non siamo proprio in tre. Direi piuttosto in due e mezzo.”
“Due e mezzo? E chi cazzo è il tuo socio? Un ragazzino di dodici anni o un uomo senza gambe?”
“Nessuna delle due, anche se la statura è più da uno di dieci.”
Silvano non aggiunse altro ed aspettò in silenzio che il catorcio si fermasse proprio affianco a noi.
Qualche secondo dopo la porta si aprì e con un balzo ed un sorriso beffardo, scese Tony.
“Ciao, pivelli!”
Io e Silvano rimanemmo entrambi a bocca aperta. Lui per lo stupore di rivedere il nano dopo molti anni,
io per come si era conciato.
Tony aprì le braccia radioso in direzione del Boa.
“Beh, Silvano. Non saluti il tuo amico Tony?”
“Beata Vergine. Tony! Amico mio, dopo tanti anni. Come fai a conoscere Carlito?”
Stretto nella morsa di quell'abbraccio infinito, il nano si spazientì subito.
“Ok, ok. Ma adesso smettila di abbracciarmi bestione. Non siamo mica due froci, almeno non io. Dai
mollami, ho una reputazione da difendere.”
Le piccole mani di
Tony cominciarono a pugnare la schiena del Boa fino a quando lui non mollò la presa.
“Ma cosa ci fai qui? Era dai tempi delle messe assieme che non ti vedevo!”
Adesso basta,” sbottò il nano mettendo mano al calcio del cannone cromato. “Non è il momento delle
lacrime, dei pompini e dei vecchi tempi. Saliamo in macchina e andiamo a fare il nostro lavoro.”
“Macchina?” lo stuzzicai io. “Non vedo nessuna macchina.”
“Maledetti pivelli ritardati. Volevate andare a fare una strage con una macchina presa a noleggio. Cosa
avreste raccontato riconsegnandola piena di buchi di pistola? Che non vi eravate accorti che qualcuno
vi aveva sparato? Invece nessuno può immaginare che la morte arrivi in Sulky! E adesso andiamo a
distribuire un po' di sani confetti di piombo.”
Il trabiccolo color merda di cane aveva la guida centrale a manubrio e, visto che io e Silvano occupavamo
da soli l'intera lunghezza della panca del triciclo, il nano per guidare fu costretto a salire in braccio nostro.
“E fatemi un po' di spazio, razza di impiastri! Maledetti pivelli!”
Il motore dopo qualche rantolo si riavviò ed dopo aver ingranato la prima il Sulky fece uno stanco balzo
in avanti, quindí con fatica, molta fatica, si mosse.
Affrontare il cavalcavia della stazione fu quasi un'impresa. Fortuna volle che trovammo il semaforo verde
in Piazza Mazzini. Quello ci consentì di lanciarci ad affrontare la salita a quasi cinquanta all'ora. A metà
strada avevamo già perso quasi la totalità della spinta e, verso la cima, ci ritrovammo quasi immobili. Il
nano scalò in prima ed affrontò gli ultimi metri con il motore fuori giri. L'interno dell'abitacolo sembrava
la sala macchine del Titanic. Finalmente cominciò la discesa ed il nano ingranò la terza, cioè la marcia
più alta. Prima scendemmo per inerzia, poi guadagnammo velocità. Entrammo nella curva che porta al
quartiere Arcella come una meteora. Le piccole ruote del sulky non riuscirono a tenere la strada, così, un
po' per volta andammo alla deriva verso sinistra, invadendo la carreggiata opposta. Quando ci ritrovammo
quasi a baciare due anziani alla guida di una Panda che proveniva dalla parte opposta alla nostra, Tony
non poté fare altro che allargare ancora la traiettoria, finendo quasi addosso al marciapiede.
Davanti a noi ci ritrovammo parecchie persone ferme in coda ad aspettare di entrare al cinema Astra per
lo spettacolo di mezzanotte. Erano talmente tante che molte di loro erano state costrette a stare giù dal
marciapiede. In un attimo si volatilizzarono tutte fra urla di terrore e bestemmie decisamente colorite.
Riuscii ad intravvedere il mezzo busto di una ragazza sfilare a pochi centimetri dal mio finestrino. Aveva
gli occhi grandi come due piattini da caffè e la bocca simile a quella del celebre urlo di Munch. Fu solo un
breve istante, poi non vidi altro.
Lentamente riuscimmo a riguadagnare la corsia di destra.
“Mi dispiace per i tuoi pantaloni Carlito,” disse il Boa con voce simile ad un primo soprano della Scala di
Milano. “Prima erano fumo di Londra, ora sono merda di Padova. Temo che li dovrai buttare.”


VIAGGIARE tautogramma di Annalisa Bruni 


Vedete, viaggio. Voglio vivere viaggiando. Vagare. Vedere villaggi, vetuste vestigia, verdi vivai. Visitare vernissage! 
Vicissitudini, vibrazioni, vetture, vetrate, vestiboli, verzure, vetrine. Vulcanica viandante, volgare venturiera, 
volo verso volubili voluttà, volteggiando. Vizio vivificante, vocazionale. Venezia, Vienna, Versailles, Venezuela, Vigodarzere, Valladolid, Vercelli, Volterra. 
Verrei volentieri. Vossignorie vociferate: velleità voluttuarie? Vistosa verità? Visibile virilismo? Vezzo vergognoso? Volontarismo vulnerabile? 
Voglia vana? Villeggiatura virtuosa? 
Vedete voi.






A BRACCIA APERTE Barbara Prevedello


Risveglio
Quale giornata òggi? Troverò una rispósta? Finalmente l'incanto si 
compirà? Incontrerò la luce?
Compirò imprese meravigliose? Sbaraglierò un esercito di nemici? 
Risplenderò in mezzo a folle che-mi ascoltano attonite? Mi lancerò sulla 
strada salvando la vita di un bimbo?
Intanto, devo (indifferente)  bére il caffé, far colazióne e lavarmi i dènti.
Un attimo di unico, perfètto silènzio attravèrsa la mia cucina. Non è 
ancóra mattina, ma non è buio; il caffè ha un buon sapóre; la sigarétta 
mi accompagna in un silènzio scandito sólo dal mio grande orològio, che 
è in casa mia da vént'anni.
Tutto è così familiare e, per un attimo, perfètto. Perfètto perché, per un 
attimo, basta. 
Attèndo
da anni, mesi, giórni e minuti.......
attèndo
il miracolo.
Finalménte,  l'attimo perfétto.
L'apoteòsi,  la discésa da un vólo abbagliante?
No, sólo una tazza di caffè
Poi, uscireLuce del mattino
carica di azzurro
pòche nuvole
carézze bianche
Solo qualche attimo prima di salire sull'autobus. Osservo.
Alla fermata dell'autobus,
aspettiamo tutti
di venire raccolti.
Un ubriaco litiga con la cabina telefonica
una madre traversa veloce la strada,
le macchine non aspettano,
nei loro volti di solitudine.
Una ragazza,
poggiata a un palo,
ascolta la sua musica.
Attende,
ma non è qui.
Un vecchio brontola
di cose che non vanno
e una donna con il carrello delle spese
si siede
in un momento di quiete.
Strada,
fiume di automobili,
di occhi che non  guardano,
di menti lontane.
Riordino la borsa
nell'attesa
di un incontro. 
Un incontro...quale incontro?
Forse, un tèmpo, in una infinita lontananza
non lame di coltello né catene di desiderio
erano fra noi
camminavamo fianco a fianco
e identica era la meta
quale fulmine separò il nostro passo
è impossibile a dirlo
ma, a volte, uomo
sento ancora  la tua antica presènza
e , così, la desidero
Il sogno svanisce. E poi,  il viaggio di sèmpre.
Curve, rettilinei
comuni passaggi, ogni giorno
ogni giorno,
curve, rettilinei, rettilinei, curve
percorso sempre uguale
mai un'altra direzione.
Per fortuna, il cielo. 









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