sabato 26 novembre 2011

I testi del 24 novembre




Grazie a tutti quelli che c'erano, grazie a tutti quelli che hanno partecipato.
Nei prossimi giorni pubblicheremo una parte dei testi non letti.
Se avete materiale foto/video della serata inviatelo a letteralmenteaperta@gmail.com
Ecco i testi invece protagonisti di Palpitante Noir del 24 novembre:

La sera è incominciata con questo video: Kasabian  - switchblade smiles





Marcello Fausto Dalla Pietà
Per
Andare
Libero
Porterò
In
Tasca
Ali
Nate
Tra
Escrementi
Nascerà
Oltre
Il tempo la
Rosa

Unkle - The Runaway:

Serena Casagrande, estratto da “L'evento si terrà anche in caso di pioggia”, racconto pubblicato su Sugarpulp.it
Ora il grand’uomo si riappropria dell’unico ruolo che madre natura gli ha concesso: quello del coglione, appunto. Dallo zaino spuntano quattro lattine di birra da cinquecento ml del Lidl. Quatro Piere beve con l’ingordigia dello sprovveduto che non conosce affatto gli effetti dell’alcol e che non sa in che guaio si stia cacciando. Ma per mantenere fede alla sua indole, sciorina aneddoti improbabili a proposito di memorabili bevute. Lei tace e fissa il cielo nero. E aspetta. Meno del previsto, perché Quatro Piere è ancora più coglione di quel che immaginava. Dopo nemmeno un’ora (e tre lattine e mezza), la Bella Addormentata riposa beata. Ma non è a questa fiaba che Lara sta pensando. A lei viene in mente piuttosto il coretto dei Sette Nani della Disney, quando allegri se vanno in miniera con il piccone in spalla. “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”. Apre lo zaino ed estrae un piccone, non proprio da minatore (l’ha trovato nella casetta degli attrezzi da giardino), ma confacente al caso suo. “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”.
Non riesce a togliersi dalla testa questo ritornello mentre fracassa la testa di Quatro Piere a picconate. Nemmeno un urlo, solo un rantolo da bestiolina. “La classica fortuna dei dilettanti”, pensa. Senza saperlo, deve essere andata subito a botta sicura. Morto sul colpo, il povero coglione. In ogni caso, le casse degli autoscontri sparano a palla La funzione dei Subsonica e in cielo compaiono I primi fuochi d’artificio. Poteva anche prendersi la briga di gridare Quatro Piere: inutile fino alla fine. “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”. E’ l’unica melodia che le arriva al cervello e, lentamente, inizia a muovere le labbra, ad articolare suoni. E un sorriso liberatorio le si stampa in faccia, mentre con dell’erba toglie dalle sue Converse nere frammenti di scatola cranica e poltiglia di encefalo del fu Quatro Piere.
Non si preoccupa nemmeno di nascondere il corpo. La sua mente non l’ha previsto. Si limita a spingerlo in un fosso. Non si sente nemmeno il tonfo, le piante acquatiche attutiscono il rumore della caduta. Solo un rospo non gradisce. Getta il piccone, le scarpe e i vestiti sporchi di sangue in un sacco di nylon. Prende il cambio dallo zainetto e ci infila il sacchetto. Poi torna tranquillamente verso la sagra.
L’evento si terrà anche in caso di pioggia. Già! Però il tempo ha tenuto, meglio così. Passa di nuovo di fronte al cimitero. Tutto tace, “Ehi oh, ehi oh! Andiam a lavorar”, canticchia a bassa voce. Esce ancora un fumo denso dalla cucina dello stand gastronomico: centinaia di persone si rimpinzano di costicine, porchetta e polenta. Alla faccia dei trentadue gradi Celsius che segna il termometro digitale della farmacia. Evita la zone con le giostre e la pesca di beneficenza, si avvia verso casa.
Domani ha la prima ora di scienze e non vuole assolutamente perderla. L’insegnante le ha promesso che le porterà la piromorfite.Spera che non la cerchino fino al termine della lezione.Perché, a Lara, questo minerale verde pistacchio piace da morire.

A lenta corsa  di Stefano Mattia Pribetti tratto da Venoir edizioni LT2
         A notte inoltrata le puttane iniziano il turno, e noi con loro. Siamo come le malattie del sangue, arriviamo in silenzio.
Ci chiamano operatori di siluro a lenta corsa, la scorta personale del tritolo, le sue braccia e le sue gambe. Siamo destinati ad accompagnare il siluro sotto le navi nemiche, lo cavalchiamo a tandem fino a quindici metri, dove l’unica luce è la fosforescenza dei quadranti al radiomir. Là sotto, bussola e profondimetro diventano i nostri occhi, e siamo gemelli siamesi attaccati per la testa. La testa del siluro si chiama “testa di servizio”, un servizio a domicilio. Contiene due quintali di tritolital e un congegno a tempo, dopo averla posizionata, il resto del siluro ci riporta a casa.
Non sbagliamo, noi del siluro a lenta corsa, è una corsa lenta perché la prepariamo per mesi. Anche per anni. È calcolata al centimetro, almeno la parte in cui arriviamo alla nave.
Per il ritorno improvvisiamo. Il ritorno è la parte per cui non ci addestrano.
Tre, due, uno, immersione.
Questo è il film peggiore del mio repertorio. Con l’acqua ad altezza occhiali avanziamo seguendo le voci di quelli che siamo pronti a far esplodere. Le spie luminose dei loro sigari, una canzone di bordo che, su un’altra nave, in un’altra lingua, ho già sentito. L’Ammiraglia Von Spee, nel suo asilo lagunare, ha oscurato tutte le stelle. C’è solo la piattaforma lanciamissili e le sagome dei cannoni contro un lembo di cielo nero. E poi sotto, l’acqua si chiude sopra le nostre teste e dissolve l’ultima luce rimasta.
Il profondimetro, ora segna meno tre metri. Buio verde cupo, temere ciò che non vediamo è il nostro mestiere, la paura del buio è il nostro radar.
Ora siamo a meno sette metri. C’è un’oscillazione anomala, non registrata dalla bolla della longitudine. Queste hanno tutta l’aria di essere vertigini.
Profondità meno dodici, avanti finché il verde cupo diventa nero pece: siamo entrati nell’ombra, nell’immane ombra dell’Ammiraglia Von Spee, ed è già tempo di risalire. Svuoto la cassa d’immersione, un “clang” che solo noi possiamo sentire.
Saliamo a meno undici metri. Lo scafo su di noi è enorme e si avvicina. Stiamo salendo ma sembra sia la nave a scendere finché non saremo seppelliti vivi sul fondo. Sensazione anomala, nausea anomala.
Meno dieci. Mettiamo un braccio sopra la testa. Pericolo di concrezioni marine sulla carena. Conchiglie, balani o denti di cane, pericolosi per noi che indossiamo solo gomma, stupida inutile gomma che basta una falla e diventa un vestito d’acqua gelida. Denti di cane, non pensare ai denti di cane. Sott’acqua, le immagini tendono a ingigantirsi. Aumento vertigini, urgenza risalita. Ipotizzata saturazione del filtro del respiratore, ipotizzata asfissia.
Meno nove. Gli operatori di siluro a lenta corsa sono silenziosi ed implacabili, e invece siamo pesci stupidi contro il ventre degli squali. Obbligo di salire con lentezza anche se urge emersione immediata, non mi intossicherò col mio stesso respiro e non vomiterò nella maschera.
Meno otto. La maschera è  un crostaceo non meglio identificato che artiglia alla nuca e insuffla gas velenoso nei polmoni.
Meno qualcosa. Non pensare ai denti di cane e a nessuna specie di crostaceo. Svuoto di colpo la  cassa d’immersione, lancetta del profondimetro che scorre troppo veloce. Mi strappo via il granchio dalla faccia, l’acqua sulla faccia è gelida, l’acqua nei polmoni è gelida.
Denti di cane in avvicinamento, denti di cane dentro la mia testa.

Anna Girardi – Nero e Colori tratto da Venoir edizioni Studio LT2
Il lunedì per Giovanni ha il colore del branzino, ed è della signora Luigia:
- Ciao Giovanni come va dammi due chili di sarde e la pesca tutto bene? e mezzo chilo di seppie sì, è un lavoro duro quello del mercato eh? lo so lo so anche il mio povero Mario l’ha fatto per un po’ quando era giovane e…Giovanni mai che ti veda in giro con una bella donna sempre solo sempre solo anche due triglie aggiungi va là…
Il martedì è rosa salmone, ed è di Giovanna: 23-24anni, perennemente in dieta, studentessa di Filosofia, forse Lettere:
- Le spigole a quanto sono? Sono fresche? Se non fosse così ossuta e occhialuta sarebbe anche carina, ma tanto, lei Giovanni non lo vede, ha Marco in testa lei, Marco e la sua chitarra e le vacanze con la Vespa su e giù per la Corsica. No, lei Giovanni proprio non lo vede. Non vede il colore dei suoi occhi, non vede le sue mani grosse eppure dolci che sfiorano, palpano e scelgono per lei le cose migliori.
Il mercoledì ha il colore sbiadito della moglie dell’architetto Frisoni che arriva dopo il consueto caffé lungo da Rosasalva:
- Buongiorno Giovanni, per oggi una dozzina di capesante; un polpo, ma non troppo grande; delle vongole, ma non troppo sabbiose; dei calamaretti, ma non troppo duri; metta tutto sul conto, grazie. Passerà più tardi Rashid, a prendere la borsa.
Elegantissima, ingioiellata anche solo per gironzolare annoiata fra i banchi del mercato, a scegliere con noncuranza il menu per un marito che è già tanto se torna una volta alla settimana da Milano, dai suoi uffici e da chissà cos’altro.
E Giovanni come sempre ascolta, silenzioso nel caos del mercato, tutti i giorni, in ogni stagione e con ogni tempo, mentre vende pesce nel suo dialetto dolce di laguna, con il Canal Grande a lambire di sale i suoi sogni interrotti di quando, bambino, voleva diventare pilota e far scorribande sulle onde del cielo. Giovanni sta lì, come in un quadro di Guttuso, incolore tra i colori, tra scaglie di speranza sciupata e carni polpose come dolore raggrumato. Sta lì, fino al venerdì.
Giorno di grande attesa, attesa di lei.
La sua Margherita. Il suo fiore.
Lui l’aspetta, aspetta lei che non sa di lui se non delle sue unghie sporche, dei suoi capelli biondo-scatola e dei suoi tatuaggi. Margherita va sempre vestita di nero e sa quello che vuole. Anche Giovanni vorrebbe saperlo. Margherita cerca la sua vita, se stessa. Giovanni non ci ha neppure provato. Ora tocca a lei, lì davanti a lui, tutta sua. Con quella sua voce piena di fumo e notti insonni. Non lo vede, non lo ascolta, non lo guarda neppure. Lui, invece.
- Buongiorno, secca, del pescespada, asciutta, una coda di rospo, assente, due mormi, fredda. Basta così. Quant’è? Ecco, grazie, arrivederci.
Si gira. Se ne va, veloce com’è arrivata e sorda, come sempre.
Tornerà venerdì. Come ogni i venerdì.
Tornerà?
Eh no, non tornerà mi spiace. Ma Lei dovrebbe saperlo, no? L’abbiamo trovata in una piccola spiaggia, lontano dal mercato, solo una rete la avvolgeva. Come un pece senza più via di scampo.
Sì. Così ho deciso.
Perché?
Perché ero stanco di stare lì, invisibile agli occhi di quelle donne che non sanno né guardare né ascoltare; in mezzo a quel pesce che mi marciva dentro, mentre mi sentivo affondare nell’acqua sempre più alta. Sì, ero stanco di tornare a casa a parlare col televisore, a passare la domenica aspettando il lunedì per vedere qualcuno, al mercato. Ero stanco di tutte quelle Luigia, Giovanna, Melissa. Ora basta Non ci sono più loro, non ci sono più io.
E infatti Luigia sta già dormendo il sonno dei Giusti, tra la fanghiglia di un fondale basso, non lontano da qui. Giovanna l’ha seguita un martedì, non era il suo giorno?
Sa, Melissa mi ha quasi ringraziato, l’ho visto dietro al terrore dei suoi occhi. E Margherita, la mia dolce Margherita, l’ho distesa sulla barca, quel venerdì, in una vecchia rete, e ho legato la
barca a una bricola in mezzo alla laguna, proprio dove andavo da bambino, con il nonno, e mi mettevo a guardare il cielo e gli aerei passare. Starò lì con lei, ho pensato mentre la seguivo. Finalmente le parlerò, le racconterò delle altre, e lei finalmente mi starà ad ascoltare. Non tornerai a casa, ho pensato.
No, non tornerà, Margherita. E non tornerà Lei. La condanna non sarà leggera, penso che lo sappia.
Non mi interessa, non tornerò. Non mi vedranno più.
Vedranno sa che non c’è al mercato.
Già, vedranno dice lei… vedranno che non mi vedranno…vedranno…vedranno…

Carlo Callegari, estratto dal romanzo “Che Dio ti aiuti, Bambola” di prossima pubblicazione con la casa editrice digitale LA CASE Production
Tony era veramente nano, ma il nano più cazzuto che avessi conosciuto in vita mia. Non che me ne avessero presentati chissà poi quanti di nani. Ma lui, ci avrei scommesso le palle, era sicuramente il più cazzuto di tutti. Viveva con le gemelle biologiche da sempre. Avevo sentito dire in giro che i tre si erano conosciuti ai tempi dell'asilo. Poi erano cresciuti, fatta eccezione per Tony, e avevano sempre mantenuto un grande affiatamento. Un'altra voce ricorrente era quella che le gemelle scopassero solo con lui e, anche in questo caso, non faticavo a credere che fosse la verità.
Tony era una nano in versione tirolese. Portava, sia in estate che in inverno, sempre lo stesso paio di pantaloni a coste in velluto verde, lunghi fino alle ginocchia. Anche le bretelle gialle lo seguivano ovunque, come pure la camicia bianca con ricami floreali al centro e sulla schiena. L'unico indizio del cambio stagione erano le calzature. Scarpe ortopediche con calzino bianco fino al ginocchio, per l'inverno. Infradito e piedi nudi per l'estate. A corredo di tutto una Smith and Wesson calibro quarantacinque con canna cromata e calcio in madreperla, perennemente infilata nella patta dei pantaloni. La canna della pistola era talmente lunga che Tony era costretto a camminare con una gamba rigida.
Per finire, ironia della sorte, il suo cognome. Il buon Dio aveva deciso di prenderlo per il culo fin dalla nascita. Tony il nano, all'anagrafe, risultava registrato come Antonio Piccolo...
Quindi, che lo chiamassi Tony il nano o che lo chiamassi Tony Piccolo, l'effetto era sempre il medesimo. Rischiavi un buco nello stomaco ad opera del suo cannone cromato.
Con un ronzio elettrico si aprì il portoncino d'ingresso e salii.
Fui accolto da Tony e dal suo cannone luccicante.
“Ciao Carlito.”
“Ciao Tony.”
“Hai controllato di non essere seguito?”
“Sì Tony.”
“Hai seguito le strade che ti avevo indicato nella lettera?”
“Sì Tony.”
“Hai spento il telefono?”
“Sì Tony.”
“Hai un vestito da cristiano, sotto a quel cappotto?”
“Sì Tony.”
“Allora vaffanculo ed entra!”
“Sì Tony.”
“E smettila di dire sì Tony, cazzo! Mi sembri uno stronzo di automa. Sì Tony, no Tony, sì Tony. Vaffanculo cazzo!
“Sì Tony” dissi sorridendo.
Lui si voltò e mise la sua piccola mano grassoccia, fra l’altro guarnita con un enorme anello d’oro a forma di testa di leone, sul calcio della pistola.
“La vedi la canna del mio ferro? Te la ficco dove il sole non arriva nemmeno a mezzogiorno e ti faccio la rettoscopia. Come rispondi?
“No, Tony.”
“Bravo ragazzo” disse sorridendo. “Adesso va meglio.”
Quel nano vestito da tirolese aveva la capacità di mettermi di buonumore. Infondo gli volevo bene. Mi invito ad accomodarmi in un divano all'ultima moda ma decisamente pacchiano.
Tony invece si sedette su di una piccola sedia in plastica rosa che sembrava essere uscita direttamente dalla casa della Barby.
“Non dire niente ragazzo” mi disse quando si accorse che lo osservavo divertito. “Si è rotta la mia vecchia sedia di paglia e così l'ho portata a sistemare. Questa è solo provvisoria. L'ho comperata in un negozio di giocattoli. Era in esposizione all'interno di una casetta in plastica per bambini. Sai, quelle da mettere in giardino affianco allo scivolo e l'altalena. Fra le altre cose volevano vendermi
pure quella.”
“L'altalena?” dissi ridendo.
“La casetta” fece lui guardandomi serio.
Alzai le mani in segno di resa.
“Di cosa volevi parlarmi?” chiese nuovamente.
“Trovavo giusto dirti che le gemelle mi hanno appena proposto uno strano rituale di purificazione.”
“E lo hai già finito?”
“No. Non l’ho mai cominciato. Per una forma di rispetto nei tuoi confronti ho preferito rinunciare. Ad ogni modo ho trovato giusto dirtelo.”
“Hai fatto bene ragazzo. Comunque quello era solo un rituale, niente di più. Non si lasciavano scopare per amore o altre balle varie. Lo volevano fare solamente per darti una mano. Credimi, dovresti sentirti onorato. Le persone che hanno potuto usufruirne, nell’arco di molti anni, si possono contare sulle dita di una mano. Io, ovviamente, sono una di quelle dita.”
“Grazie Tony. Dovessi stendere un’altra persona, promesso che ci farò un pensiero.”
“Bravo, perché non sai cosa ti sei appena perso. Quelle due donne sono fantastiche, hanno il fuoco dentro. Io devo essere arrivato al quinto, o forse sesto rito di purificazione, adesso non ricordo bene.”
“Con questo mi stai dicendo che tu…”
Il nano portò la sua grassoccia mano davanti al naso, quindi alzò il dito indice.
“Shhh. Mai fare troppe domande, ragazzo. Nel nostro settore si potrebbe finire diritti al campo santo, nella migliore delle ipotesi.”
“Forse volevi dire nella peggiore delle ipotesi.”
“No. Volevo proprio dire nella migliore. Nella peggiore finisci dentro ad un argine, senza nemmeno una bara ed un posto dove i tuoi cari possano piangerti. E’ una bella differenza, credimi. Oltretutto è pure una grande rottura di coglioni per chi deve scavare la fossa. Io lo so bene, perché qualche anno fa ho perso una notte intera a scavarne una dalle parti di Fiesso d’Artico.”
Sorrise nuovamente.
“L’unico stramaledetto cinese alto più di un metro e settanta me lo sono beccato io. Non sembra, ma venti centimetri fanno la differenza quando stai scavando una dannata fossa… Adesso però vai e vedi di non farti seguire da qualche stronzo. Noi ci aggiorniamo a dopo domani.”
Prima che potessi aggiungere altro il nano mi aveva già sbattuto la porta in faccia.

Depeche Mode - I feel you:



Francesco Pasquale, “A ruota”, racconto pubblicato su Sugarpulp.it
SP 10 Padana Superiore.
Notte.
Capannoni e officine.
130 all’ora di automobile.
«Cazzo cazzo cazzo! Maledetta puttana!»
Supermercati e outlet.
«Ma chi cazzo me l’ha messo in testa di fare?»
«Ma io…»
«Taci zoccola!»
Cartello blu Vicenza.
Cartello blu Verona.
«Credi che me piacere prenderlo da tutti?»
«Taci t’ho detto! Mica mi puoi mettere contro i tuoi protettori!»
«Io no soldi. Io pagare afitto. Io…»
«Chiudi quella bocca di merda!»
L’auto curva a 45°.
Stridore di gomme.
«Che situassion demmerda!»
Una seconda auto curva a 45°.
«Proiettili rimbalzano sulla portiera.»
«Pure ci sparano ora!»
«Loro no cattivi. Loro solo arabiati!»
«Arrabbiati?! Arrabbiati?! E che facciamo? Gli offriamo da bere? Gli raccontiamo una favola? La piccola fiammiferaia del cazzo dovevo tirarmi su!»
Fari alti.
Lampioni ovunque.
«Se mi salvo giuro non bestemmio più Dio, giuro non bestemmio più Dio… – un proiettile sfascia il lunotto posteriore – … porco!»
«No bestemiare!»
«Taci troia!»
La seconda auto prende terreno.
«Checcazzo, arrivano!»
«Gira qua tu!»
«Mi dai ordini ora?»
«Gira qua tu! Io dire io conosce strade io lavora qui!»
«Si, come no: lavora…»
L’auto svolta.
La seconda auto svolta.
«Checcazzo hai mente negra?»
«Tu va forte ora!»
«Tutto quello che volevi è che andassi forte?!»
Tace.
La velocità aumenta.
140.
150.
160.
Curva pericolosa.
«Ma che…. oh!»
Freno a mano.
Derapata perfetta.
L’auto riprende.
Idem gli altri.
«Devi ancora finire».
«Cosa?»
«T’ho dato trenta euro cazzo! Finisci il lavoro di prima!»
«Ora?»
«Un pompino cazzo! Quanto ci vuole?»
«Ma io…»
«Ch’è? Ho fatto vedere l’uccello a quelli stronzi là dietro per niente? Già che è colpa tua, zoccola! Se fosse per me avrei già avuto il mio bocchino bell’e fatto!»
«Sì, ma…»
«Ora!»
Cintura tolta.
Pantaloni abbassati.
Mani scure afferrano il pene.
«Ah…»
Occhi chiusi.
Riaperti.
Mani nere aprono una scatola di condom.
Estratto uno.
Aperto.
«Cazzo fai?»
Abbassa gli occhi.
«Preservativo…»
Rialza.
La guarda in faccia.
«Trenta euro e vuoi anche il preservativo?!»
«Ma…»
«Buttalo porca puttana!»
S’apre il finestrino.
Cade un preservativo.
«Dai cazzo ché faccio prima a farmelo fare da quegli stronzi là dietro cazzo!»
Abbassa il capo.
Apre la bocca.
S’infila il pene in bocca.
«Ah, sì…»
Rotonda stradale.
«Porca troiaaaaa!»
L’auto sulla sinistra.
Rotonda passata.
«Ahi cazzo!»
«Scusa».
«Attenta con quei cazzo di denti!»
Riprende a succhiare.
L’auto dietro aumenta la velocità.
Autovelox.
Due.
Tre.
Quattro flash.
Viene.
«Ah…»
Silenzio.
Sulla sinistra una via stretta.
Rallenta.
Svolta brusca.
Svoltano gli altri.
Passano.
Escono su una strada.
Riprendono.
La macchina ferma in un vicolo.
Seminati.
Silenzio.
Si rialza i pantaloni.
S’accende una cicca.
Aspira.
Espira.
Il fumo si propaga per l’abitacolo.
La guarda.
«Fatto alla cazzo, comunque.»



Volbeat - A Warrior's call:



Carlo Vanin, estratto dal racconto “Il suono del grande Babù”, pubblicato su Sugarpulp.it
Da fuori si sente un suono sordo. Come se qualcuno stesse battendo su una lamiera. [...] Malvolentieri mi alzo del letto e mi avvicino alle persiane. I tonfi si moltiplicano. C’è un batterista
pazzo là fuori, penso, che sta sfogando la sua rabbia su una macchina. Per fortuna che ho messo il bolide in garage….
No, cazzo. Quello era ieri. Stasera mi par proprio di ricordare che…
No, invece, non mi ricordo un cazzo.
Sussurro una bestemmia smozzicata e alzo le persiane. Son pallido anch’io adesso.
Nel frattempo si ode il rumore di un vetro che va in frantumi. Esco sul terrazzino e guardo giù, nel parcheggio comune.
Merda.
“Dani, che c’è?” Mi chiede la Vale ma io non rispondo.
Fuori è ancora notte. Ancora per poco, immagino. E… e c’è il vecchio Carraro.
C’è Carraro con una mazza da baseball laggiù. E mi sta sfasciando la Z4.
Lo stomaco, il mio stramaledetto stomaco, mi si stringe alle dimensioni di un oliva da spritz. Quasi mi piego in due dal dolore. Poi cerco di dire qualcosa ma la voce non mi esce, come in uno di quei brutti sogni in cui vuoi urlare ma non puoi.
“Ohi Dani…che c’è?” Mi chiede di nuovo la Vale.
“Ohi piccola, meglio che non vieni qua fuori.” Le dico e dopo averlo detto scatto.
Nella mia testa c’è poco o niente. So solo che devo fermare il merdoso. In tempo zero sto armeggiando con la serratura della porta di casa. Le mani mi tremano e nella mia pancia c’è qualcosa che ribolle più di un cesso chimico ad un rave.
“Dani, ‘ara che sei ancora in mutande.” Mi dice la Vale. La guardo: sta indossando la mia camicia.
“Non uscire! Stai qui!” La rimprovero ma cerco di dirlo in maniera dolce, anche se mi esce un cazzo di tono da bambino lamentoso.
Riesco ad aprire la porta e corro giù per le scale quasi rischiando di ammazzarmi. Appena esco dalla palazzina mi accorgo di essere in mutande perché fa un freddo cane. Non è il freddo, comunque, che mi fa tremare e non so neanch’io cos’è. Rabbia o paura o un misto delle due.
“Carraro!” Grido. “Che cazzo fai?”
Il vecchio è preso male. C’ha due borse sotto gli occhi che sembrano due canyon. La sua faccia è quella di un cane rabbioso. Respira pesantemente e stringe la sua mazza. Nella luce fredda dei lampioni sembra una specie di zombie.
“Figlio di puttana.” Mi dice fra gli ansimi.
“Che cazzo…?” Cerco di ripetere ma non finisco la frase perché Carraro mi carica. Oddio, non è che carica proprio, diciamo che si trascina verso di me agitando la mazza. Io arretro e do un occhio al mio bolide. Il cofano è bello che andato così come il parabrezza, un finestrino e uno specchietto retrovisore.
[...]
“Mi avete portato via tutto, bastardi figli di puttana!” Ruggisce e sembra che ci sia qualcosa che luccica nei suoi occhi. Passo dalla rabbia alla pena.
“Che cazzo volete di più?” Oscilla ancora la mazza e dalla foga quasi cade ma si mantiene miracolosamente in piedi. Torna ad ansimare più velocemente. Tira un lungo respiro e sputa tutto d’un fiato: “Ho lavorato per tutta la mia vita e adesso mi portate via tutto. Io ti ho detto che ho tutto investito che non posso tirare fuori i soldi. Io non ce li ho più i soldi, lo vuoi capire? Qua gli ordini non arrivano più. I tedeschi vanno in Cina adesso, io cosa ci devo fare?”
“Carraro, meglio se ti calmi dai…ti ho coperto io coi soldi, non c’è problema.” Gli dico io, anche se capisco che non sta mica parlando dei miei quattromila euro. Cerco di avvicinarmi e allungo anche una mano come per dire che va tutto bene. Mi ha distrutto la macchina ma va bene, almeno per adesso.
Niente da fare, il vecchio torna a scacciarmi con la mazza. Fa un passo in avanti e stavolta mi sa che cade proprio ma non cade.
“Che cosa volete da me?” Mi dice guardandomi, ma non guarda me in realtà. Son sicuro che sta piangendo ma senza lacrime, se è possibile. La sua voce è diventata una specie di ruggito di catrame. “Che cosa volete da me?” Ripete e torna ad avanzare.


Thomas Tono, estratto da “Space Invaders”, racconto pubblicato dal quotidiano Il Manifesto e disponibile online su Sugarpulp.it
- E questo – fa Giulio, – cosa cazzo è?
- Uhm… non lo so – dice Tony inclinando il capo di lato, – ma tu intanto datti da fare.
Giulio cerca e trova nella tasca il cellulare e inizia a filmare.
- Prima fammi una bella panoramica sulla zona e sull’astronave – lo istruisce Tony, – e in fine fai un primo piano a questo coso.
L’essere sembra respirare ancora. Ha varie abrasioni e tagli, uno abbastanza profondo su quella che dovrebbe essere la testa. Fuoriesce un liquido rosso del tutto simile al sangue. E’ come se con l’impatto avesse sbattuto la testa sul volante.
Si muove appena, ma è ancora vivo.
- Non assomiglia per niente ad E.T. – conclude delusa Valentina.
– Già – fa Tony, – sembra più un enorme ratto con una tuta da bebè.
- E’ disgustoso – esclama Giulio dietro la luce del cellulare.
- Sì, fa veramente schifo – analizza scientificamente Tony, – ma hai idea di quanti contatti potremmo fare con questa roba?
- Oh Gesù, non mi direte che abbiamo fatto tutta questa strada per YouTube, vero? – dice Valentina con il fiato che le rimane in gola.
- Naa…- scuote la testa Giulio – è pieno di questi filmati amatoriali, crederanno che sia solo uno dei tanti video taroccati che girano in rete.
Tony e Valentina lo guardano ammutoliti, Giulio non batte ciglio e continua a riprendere.
Tony ci pensa su per un po’.
- E allora diamogli un tocco di realismo in più – dice, e dà un colpo secco alla fune.
La sega parte ronzando. Tony si avvicina lentamente. Le lingue di fuoco alle sue spalle saettano verso il cielo che sembrano volersi divorare la luna. Dà più gas. I denti della lama prendono velocità e stridono in un suono metallico. L’essere alza quella che dovrebbe essere la testa, e da un foro della tuta fuoriesce una specie di proboscide che si allunga verso di lui.
I due si guardano. L’essere ha occhi quasi umani. Tony no.
- Sorridi stronzo, sei su YouTube.

Soundgarden - Black Hole Sun:

RICONCILIAZIONE di Annalisa Bruni tratto da Altri Squilibri Edizioni Helvetia

Come sei tranquilla, ora, qui, tra le mie braccia.
L'avevo promesso. Basta con le scenate. Niente più liti furibonde.
Accarezzo il tuo viso finalmente sereno. Sei bella, bella come non sei stata mai. Amore mio.
Bacio le tue labbra socchiuse e penso che sono stato fortunato, sai, quella volta che tu, tra tanti, hai scelto proprio me, sfidando il mondo.
Sfioro la tua fronte distesa con la punta delle dita, la tua pelle è liscia e morbida, come allora.
Adesso, però, è meglio che vada a lavarmi le mani.
Quel piccolo foro in mezzo agli occhi sanguina ancora.



Nessun commento:

Posta un commento

Scrivi il tuo testo qui!